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riflessioni sulla medicina

Non c'è solo la malattia, ma anche lo spirito della cura

Uno psicologo clinico e il cappellano dell'Istituto dei Tumori dialogano

Maurizio Crippa

Due "professioni" e due ambiti separati uniti dalla stessa domanda: la medicina è solo una tecnica da applicare a una male specifico o bisogna curare "tutta la persona"? Un libro scritto a quattro mani, frutto di anni di lavoro e di una riflessione acuta sul ruolo della medicina

Si sono conosciuti alla macchinetta del caffè. Succede a tante persone, in qualsiasi luogo di lavoro. Ma qui il luogo non è qualsiasi, è l’Istituto nazionale dei tumori di Milano, tra i più noti e accreditati ospedali oncologici italiani; e loro non sono due passanti casuali in pausa caffè. Carlo Alfredo Clerici è un medico, specialista in Psicologia clinica e psicoterapeuta, ed è dirigente di questo servizio in fascia pediatrica nell’ospedale milanese. Tullio Proserpio è invece un sacerdote, e dal 2003 è cappellano ospedaliero presso l’Istituto dei tumori di Milano. Un’esperienza maturata sul campo e con studi specifici che lo ha portato a essere consulente sul tema delle cure palliative per la Pontificia accademia delle scienze.
La macchina del caffè, la mattina in un ospedale che ospita malati di tumore, spesso non più curabili, non di rado minori, non è necessariamente un’area relax.

Spesso basta incrociare lo sguardo dei medici che entrano in turno, racconta il professor Clerici, o degli infermieri che staccano dopo la notte, per capire come sarà la giornata, quali i fronti su cui lavorare, quali i drammi. La psicologia clinica è medicina, non un palliativo: è costruire un rapporto con il paziente, con la sua famiglia, è parte della cura, ha a che fare con le diagnosi e con l’assistenza infermieristica. Anche per un cappellano la macchina del caffè non è un rito. E’ il momento in cui mondi differenti si incontrano, persone con punti di vista a volte diversi scoprono percorsi e domande comuni. “Ma non è strano che un prete e uno psicoterapeuta non solo si parlino, ma addirittura collaborino nell’assistenza dei pazienti?”, è la domanda che si sono fatti fare spesso, in anni ormai di lavoro fianco a fianco, ognuno nel suo. Non è strano, assicurano, e dopo anni di lavoro e riflessioni hanno deciso di spiegarlo in un libro, scritto insieme, per far capire a un mondo più vasto qualcosa di essenziale della cura, che non è soltanto tecnica medica. Di che cosa ha bisogno l’ammalato che soffre e che intravede l’avvicinarsi dell’ultima soglia? Esiste la possibilità di un’alleanza tra medicina e spiritualità, in una realtà sanitaria sempre più tecnologica e standardizzata su grandi numeri ed efficienza delle prestazioni? Da qui nasce la necessità di arrivare a una “medicina centrata sul paziente”, che guardi il malato non come oggetto clinico, ma come portatore di istanze, valori, di relazioni. E’ il concetto stesso di “salute” a essere cambiato, spiegano. Così anche la collaborazione tra discipline e “sfere” un tempo distanti ormai è divenuta basilare: prima della malattia, prima del malato, c’è una persona con le sue complessità. Tra cui una dimensione “spirituale”. Parola che per primo don Tullio Proserpio ci tiene a liberare da “un pregiudizio”. Che “spiritualità” indichi qualcosa che attiene solo a un richiamo di tipo religioso; invece, dice, “in tema di letteratura scientifica la dimensione spirituale è ciò che dà senso alla vita delle persone”. L’esperienza del Covid ha reso alla consapevolezza anche dei più distratti, e delle stesse istituzioni sanitarie, quanto la parte “umana” sia essenziale nell’affrontare la malattia. Ciò che pertiene al dialogo col paziente e con i suoi affetti, alle cure palliative, tanto più quando ci si avvicina alla fine della vita, è diventato finalmente un tema centrale.


In questi giorni torna in Senato anche la legge sul fine vita: basterebbe l’attenzione sociale che oggi si presta a queste tematiche per capire quanto la “cura” non possa più essere circoscritta ai suoi aspetti tecnici e scientifici. E’ la dimensione approfondita da Clerici e Proserpio nel loro libro, "La spiritualità nella cura. Dialoghi tra clinica, psicologia e pastorale", da poco uscito per le Edizioni San Paolo. Frutto di un lavoro sia scientifico sia sul campo e di dialoghi e riflessioni. Nulla di “spiritualistico”, tantomeno di confessionale. E’ una riflessione seria su una “esperienza della malattia” che sta cambiando.

 

Ieri, proprio all’Istituto dei tumori, un convegno – presente tra gli altri l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini – ha affrontato il tema. Nessuno dei due autori nasconde che far dialogare l’approccio delle scienze psicologiche e il portato di una sapienza religiosa sia faccenda “complessa”, e impacciata da antichi retaggi. Ma il libro, in modo dialogico, quasi epistolare, permette di introdursi in una riflessione che spesso il discorso pubblico trascura, e quello privato evita di affrontare. Sono i temi della sofferenza e della speranza, della necessaria “umanizzazione delle relazioni” dentro quel particolare luogo che è un ospedale. Nessuno di noi, in prima persona o a livello sociale, ha “risposte pienamente persuasive davanti ai grandi interrogativi, soprattutto vicino al letto dei pazienti stessi”, scrive Papa Francesco nella breve prefazione che ha voluto scrivere per questo libro. Ma nell’accudimento fisico e spirituale si possono avvicinare pratiche che aiutano a superare molti muri. Non è solo un libro-testimonianza, anzi è preponderante l’approfondimento e il confronto con la letteratura medica. Si parte a riflettere su quanto sia cambiata la cura soprattutto ospedaliera, da quando era di fatto un esercizio della carità nell’ambito della visione cristiana della vita e della sofferenza (con qualche punta di filosofia “dolorista” che don Proserpio segnala come non più proponibile), alla diagnostica medica e all’approccio sempre più strumentale di oggi. Che senso ha un prete in corsia, oggi, in un clima religioso e culturale che non è più quello di decenni fa? E che senso ha, in generale, occuparsi di “spirito”, nel momento in cui la medicina è come spersonalizzata, non più affidata alle mani e all’esperienza del medico? “La medicina diventa sempre più ‘scienza della malattia’, l’esperienza personale del malato sulla sua malattia diventa un dato progressivamente svalutato”, scrivono i due autori. Perché il percorso che vanno disegnando non è né quello di una risposta di “spiritualità” religiosa, né una pura ricerca di terapia psicologica. E’ una riflessione piena di domande sulla sempre più necessaria “umanizzazione della medicina”.


Tullio Proserpio di sé racconta che non era sua intenzione diventare cappellano d’ospedale. Fu un’intuizione del cardinal Martini a suggerire che una delle frontiere in cui i sacerdoti dovevano essere presenti, in un modo nuovo, erano i luoghi della sofferenza e, spesso, della non-speranza. Così lui è all’Istituto dei tumori da quasi vent’anni, anzi è l’unica persona che proprio ci abita dentro. Un percorso di vita in cui la bussola non è mai stata quella di una trasmissione dottrinale, rituale, ma l’incontro con persone – molto spesso non religiose, o di altre religioni –, l’ascolto. L’aiuto a far venir fuori tutto ciò che la malattia sembra comprimere in una dimenticanza lontana. Con finezza don Tullio non usa la parola speranza in tono clericale, ma c’è una constatazione: “Che nei testi di clinica medica non sia mai citata la parola ‘speranza’, anche se forse è l’aspetto più importante che i pazienti cercano nella cura”. Con acutezza il dottor Clerici mette a tema la fiducia nel rapporto tra medico e malato. Clerici non ha solo il lavoro in reparto, è anche professore di Psicologia clinica presso il dipartimento di Oncologia dell’Università degli studi di Milano. E’ consapevole che non vi sia ancora una adeguata preparazione dei medici su questi aspetti. La psicologia come disciplina è diventata materia universitaria da pochi decenni, e basta riflettere sui dati (in crescita) di burnout nelle professioni sanitarie per capire quanto sia necessaria. “Servono nuovi modelli di collaborazione e nuove routine nelle équipe sanitarie, in cui l’ascolto e la presa in carico della dimensione spirituale del paziente diventano un elemento capace di sostenere nei momenti più difficili e di offrire prospettive alla domanda di senso che accompagna ogni essere umano”, scrivono.

Gravi crisi sanitarie come fu quella dell’Aids e ora quella del Covid dimostrano che non si può curare “solo” il corpo o la malattia. E’ da questa riduzione che deriva spesso la “malpractice” sanitaria, che porta sfiducia nella cura e addirittura disperazione o rivendicazione. I medici spesso rispondono con la cosiddetta “medicina difensiva”, un modo di tutelarsi attraverso la moltiplicazione delle diagnosi strumentali. E’ sempre più evidente che serva una “medicina centrata sul paziente” come portatore di istanze, valori, di necessità di vivere e mettere in relazione la sua esperienza di malato. Attraverso i metodi della psicologia, attraverso la sensibilità e la condivisione spirituale, entrare in relazione con l’altro è un aspetto decisivo della cura, spiegano i due autori. “Mentre esiste il rischio di impoverimento delle pratiche religiose tradizionali – dice don Tullio – inizia a essere richiesta, in particolare in contesti di medicina avanzata, una rinnovata disponibilità dei cappellani formati al ruolo i testimoni e garanti delle istanze spirituali dei pazienti, a qualsiasi confessione appartengano”. Ha avuto modo di studiare negli Stati Uniti, e di rendersi conto del tipo di preparazione e attenzione richiesta lì, dove figure come quelle del cappellano o dell’assistente spirituale sono considerate “parte” delle cure. Invece, ancora oggi in Italia “gli allievi sono formati solo in pochi contesti e in modo non sistematico a prestare attenzione alla dimensione spirituale dei pazienti”, e questo è compito che può essere affrontato insieme da entrambi gli approcci. “Dare un significato alle esperienze potenzialmente traumatiche”, “trovare un senso all’esperienza della malattia”, questo è il lavoro sulla dimensione spirituale. “Sai già cosa ti dicono i medici…  sai già cosa ti dicono i preti”, raccontano. E’ la loro esperienza alla mattina, alla macchinetta del caffè. Ma da lì partono percorsi pieni di senso, nei corridoi di un ospedale.

  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"