FACCE DISPARI

Salvatore Palomba, l'ultimo figlio della scrittura dialettale

Francesco Palmieri

Poeta e autore di canzoni, a 88 anni indimostrati è consapevole di essere storia già solo per brani come "Carmela" e "Amaro è ’o bene"

Chi riordina una biblioteca, scrive Borges, esercita l’arte della critica “de un modo silencioso y modesto”. Così, collocando Nu cielo piccerillo di Salvatore Palomba alla ‘P’, tra Murolo e Russo, gli si dà il giusto posto in mezzo ai classici della poesia napoletana (che spesso, e nel suo caso, è anche poesia per musica). Lo confermano le antologie di un genere che sembra senza pessimismo in estinzione: per incapacità di prescindere dagli stereotipi, per sciatteria di scrittura, evoluzione dei costumi. Palomba, pubblicato dall’editore Cuzzolin, a 88 anni indimostrati è consapevole di essere storia già solo per canzoni come Carmela e Amaro è ’o bene, musica e voce di Sergio Bruni (ma fra i numerosi interpreti campeggia Mina).

   

Nel film ‘Qui rido io’ il regista Mario Martone mette ‘Carmela’ in sottofondo allo sconforto del protagonista Eduardo Scarpetta. La scelta l’ha emozionata?

L’ho trovata particolarmente azzeccata per descrivere quello stato d’animo. Come il resto della colonna sonora. Che è un viaggio sentimentale.

  

‘Carmela’, racconta la vulgata, nacque in trattoria dalla vista di una ragazza.

Avevo già scritto la poesia di getto in una notte d’agosto, mentre la mia famiglia era in vacanza. Ero indeciso sul titolo: Carmela mi sembrava un nome inattuale. L’indomani al ristorante vidi la figlia del proprietario che serviva ai tavoli con uno sguardo fiero, da regina. Sentii che la chiamavano: ‘Carmela!’ E mi parve un segno. Non ho mai raccontato il seguito: all’epoca ero un dirigente della Rizzoli e il mese dopo, in Grecia per vacanza aziendale, incontrai una ragazza jugoslava che si chiamava con lo stesso nome. Pensai: le giovani Carmela esistono. Non ebbi più dubbi.

  

Forse per la prima volta in una canzone napoletana lo sfondo di un amore non è l’idillica natura, ma un vicolo “nero”.

Fu una rivoluzione rispetto alla lirica classica. Qui c’è solo una donna che dà luce al vicolo e al cuore di un uomo. È anche un omaggio alla dignità nascosta di Napoli. Una poesia che avevo maturato da quando, durante la guerra, soffrivo per il sacrificio di tante luminose ragazze. Nel ’44 abitavamo a vico Tutti i Santi, avevo undici anni e m’innamorai segretamente di una diciottenne che viveva nel palazzo: Margherita, capelli biondi, occhi verdi. Una sera la vidi rincasare abbracciata a un militare americano di colore e capii. Piansi tutta la notte.

 

Lei ha scritto poesie, molte diventate canzoni, da quando era bambino. Perché in dialetto?

Penso come Franco Loi, nato a Genova ma poeta dialettale milanese: è la lingua che ti sceglie. Il napoletano è la mia identità. Volevo fare il paroliere e composi anche testi in italiano, ad esempio per Fred Bongusto, poi optai per il solo dialetto. Come un pianista che deve scegliere tra musica classica e jazz.

 

Cosa accade alla produzione artistica in napoletano?

Oggi il dialetto ha soprattutto una funzione ludica, è meno parlato in casa e risente della tv, di internet, della scolarizzazione. Quasi nessuno sa più scriverlo. I poeti dialettali non lo imparavano a scuola, però eravamo favoriti perché il napoletano si stampava sui giornali e sulle copielle delle canzoni. Oggi c’è sciatteria e scarsa qualità media, dai neomelodici ai rapper. Peccato perché sarebbe un bel modo di comunicare la nostra lingua ai giovani.

 

Come sono cambiati i contenuti delle canzoni?

Ora il sentimento principale è la rabbia, i brani sentimentali fanno fatica a imporsi. Prima la canzone napoletana era una forma di poesia cantata, adesso il testo si modella sulla musica. Sergio Bruni delle mie poesie non toccava un rigo. Diceva: “La musica sta nelle parole di Salvatore, devo solo trovarla”. Il segno metrico lo dava l’autore dei versi. Si pensi ai miracoli che fece Mario Costa con ‘Catarì’ o ‘Napulitanata’ di Di Giacomo.

 

Chi è l’autentico poeta dialettale?

Chi ha la capacità di innovare oltre gli stereotipi. Chi usa la stessa lingua per raccontare diversamente. Agli inizi un poeta si rifà a chi lo ha preceduto, poi deve acquisire autonomia. Una delle ultime poesie che ho scritto, ‘M’alluntano’, si apre a una tematica atipica nella tradizione napoletana: “M’alluntano,/appriesso a na cumeta senza filo/ca me prumette ciele scunusciute,/me sento svacantato d’e penziere/leggiero e abbandunato d’e ppaure...

 

Ha futuro la canzone napoletana?

Con la globalizzazione le identità sbiadiscono. Ma se s’ascoltano ‘Napul’è’ di Pino Daniele e la villanella cinquecentesca ‘Boccuccia de nu pierzeco apreturo’ si capisce che è lo stesso dna al di là del tempo e delle innovazioni.

 

Come ricorda il sodalizio con Sergio Bruni?

Mi manca l’amico, anche quando c’era burrasca. Per cinque anni non ci parlammo perché lui m’incalzava con la richiesta di testi e io ero troppo assorbito alla Rizzoli come responsabile vendite del Centro-Sud. Per un periodo non scrissi più. Poi riprendemmo a sentirci ogni sera: le sue due ultime canzoni sono su testi miei. Ricordo con nostalgia quando gli passavo una poesia: si metteva il foglio in tasca, lo leggeva e rileggeva. Poi senza strumento, con la voce, cercava piano piano la melodia.