Ballet (not) for peace
La diaspora dei balletti russi in fuga da Putin
C’è chi accoglie le étoile e chi fa polemica, boiccotando la cultura russa per opporsi alla guerra. Ma una volta russi e ucraini danzavano in armonia
Ballet for peace? “L’odore del sangue non mi va via dagli occhi”: potrebbe dare una risposta al quesito la terrificante frase di Juan Belmonte, il famoso torero suicida. In questa guerra russo-ucraina, nel balletto del tutto fratricida, si susseguono colpi e contraccolpi a volte metaforici ma spesso più che concreti. Un esempio doloroso è senza dubbio la morte di Artem Datsishin, 43 anni, poco noto in occidente, ma a suo tempo prestante étoile del Balletto nazionale di Kyiv. La scomparsa del ballerino è avvenuta il 17 marzo all’ospedale della capitale in seguito alle ferite riportate il 26 febbraio in un attacco dell’artiglieria russa, appena due giorni dopo l’inizio dell’invasione di Putin. Potrebbe essere una concausa della totale chiusura delle attività del Teatro di Kyiv: molti compagni di sbarra e di grand battement di Datsishin sono fuggiti per non incappare nel suo stesso, tragico, destino. Altri, supponiamo abbiano imbracciato il fucile.
Ben più sicura, la fuga dalla Russia degli stranieri: molti hanno lasciato Mosca e San Pietroburgo come l’italiano Jacopo Tissi, per quanto sia da poco diventato étoile del Balletto del Bolshoi grazie a Makhar Vaziev, il suo talent scout, già direttore per sette anni e sino al 2015 del Balletto della Scala. Ritornato laddove si era formato da ragazzino, dalla prossima stagione Tissi sarà ospite stabile al Piermarini e sino all’altro ieri era in scena per la prima volta nel Corsaire, al Costanzi di Roma. Il francese Laurent Hilaire, ex étoile dell’Opéra di Parigi, dal 2017 direttore del corpo di ballo del Teatro Stanislavskij-Nemirovich-Dancenko di Mosca, ha “tristemente” annunciato le sue dimissioni a seguito del conflitto. Se per i forestieri l’esodo dal paese degli zar ha significato soprattutto una malcelata paura di ritorsioni in seguito alle sanzioni europee e d’oltreoceano contro Putin, per alcuni danzatori e artisti russi l’evasione è stata dettata da una severa opposizione all’aggressione ucraina.
Ol’ga Smirnova, scintillante étoile del Balletto del Bolshoi, è riparata in Olanda ed è subito entrata a far parte dell’Het Nationale Ballet di Amsterdam. In marzo hanno seguito o preceduto il suo esempio Victor Caixeta (primo ballerino), David Motta Soares (solista) e persino lo stimato Tugan Sokhiev, il celebre direttore musicale del Bolshoi, dimessosi in seguito anche dall’Orchestre National du Capitole di Tolosa: immaginava che i funzionari dell’istituzione non gli avrebbero consentito di dirigere i suoi amati compositori russi. Dobbiamo ricordare il ridicolo caso milanese occorso a Dostoevskij e a chi ne voleva insegnare la statura letteraria? Il nostro cammino è pieno di contraddizioni.
Tra gli emigrati dalla Russia ecco comparire altri ballerini e insegnanti di origine ucraina come Denis e Anastasia Matvienko o Vsevolod Mayevsky. Quarantatré anni, già fascinoso James Dean della danse d’école, Denis è scappato con la famiglia ad Abu Dhabi in Arabia Saudita lasciando la sua classe e i suoi allievi dell’Accademia Vaganova di San Pietroburgo alla ben solida ferula didattica di Fethon Miozzi. Romano, una volta terminati gli studi in Italia, Fethon ha scelto la Russia per perfezionarsi, entrando a far parte del Balletto del Mariinskij di San Pietroburgo e infine, scoperta una vena pedagogica importante, didatta all’Accademia Vaganova. Nata nel 1738, grazie ad un editto della zarina Anna Ivanovna che la volle come Scuola imperiale chiamando dalla Francia e dall’Italia i migliori didatti, la Vaganova è tra le scuole accademiche più prestigiose del mondo. L’infallibile metodo d’insegnamento di Agrippina Vaganova ha formato Rudolf Nureyev, Mikhail Baryshnikov, Natal’ja Makarova, Ul’iana Lopatkina, Svetlana Zakharova, su su sino ad Anna Pavlova e ai maggiori danzatori d’inizio ’900 come Vaslav Nijinskij, resi noti in occidente solo dal 1909 dall’ingegno di Sergei Diaghilev, l’impresario dei Ballets Russes.
Senza ancora sapere che in Italia l’Istituto di cultura russa è stato eliminato dalla giuria internazionale del Premio Strega (complimenti ai censori!), Fethon Miozzi si rammarica che quest’anno la “sua” Accademia non sarà invitata al Prix de Lausanne, importante concorso svizzero per giovani talenti. Sostiene che il luminoso centro coreutico ubicato, dal 1838, in un edificio neoclassico dell’architetto Carlo Rossi, e in una delle strade più affascinanti di San Pietroburgo – la via Rossi, appunto –, ha sempre accolto ballerini ucraini e da ogni continente. “I primi, in passato, hanno pagato i loro studi come tutti i forestieri”, precisa Miozzi. “Considerando, però, la situazione attuale”, aggiunge, “abbiamo accolto allievi delle repubbliche del Donbas, Donetsk e Luhansk nonché i possibili studenti dell’Accademia di Kyiv per far loro completare gli studi gratis”. Con la guerra, assicura Fethon, alcuni ucraini sono rimasti, altri se ne sono andati “ma con l’intenzione di tornare al più presto”. Tutto ciò conferma quell’aggettivo “fratricida” posto all’inizio del nostro scritto: prima dell’insensata aggressione di Putin, russi e ucraini hanno sempre danzato in armonia.
Ballet for Peace? Macché: uno dei nostri primi spettacoli per la pace si è trasformato in piccola guerra. E’ il 4 aprile e per quella data Alessio Carbone, già primo ballerino dell’Opéra di Parigi, aveva proposto al Teatro di San Carlo un gala dell’amicizia, con una quarantina di ospiti europei, tra cui russi e ucraini. Il teatro, entusiasta, decise di devolvere gli incassi al paese aggredito. Purtroppo alcuni giorni prima dell’evento, il console ucraino a Napoli lanciò una sfida: “Dopo gli eccidi di Bucha nessuna danza con i russi”. L’anatema produsse una manifestazione di cittadini ucraini davanti al teatro partenopeo: inneggiavano cori contro Putin e la guerra, ma qualcuno sgattaiolò dentro l’edificio, grazie anche ai ridottissimi costi dei biglietti. Nel frattempo, per calmare le acque, il pacifista Carbone, aveva provveduto a cambiare il titolo del goloso gala in Stand Up for Ukraine. Stracolmo, il teatro applaudì gli appena fuggiti dal Bolshoi – Olga Smirnova e Victor Caixeta –, e tutto sembrava procedere per il meglio. Quand’ecco che durante l’intervallo qualcosa deve essere successo. I passi a due del secondo tempo si limitarono a presentare solo gli Adagi. Chiariamo: nel repertorio tradizionale, qui tutto russo o quasi, i pas de deux di Raymonda, del Lago dei cigni, del Corsairee via dicendo, sono composti da Adagio, due Variazioni, una maschile, l’altra femminile, e una cosiddetta “Coda” con la coppia riunita. Dell’anomalia si accorsero solo i competenti, mentre la causa delle misteriose decurtazioni deve essere scaturita da alcune immagini lanciate sui social e inneggianti a Putin. Non ci sono indizi sullo spiacevole scherzetto: chiunque avrebbe potuto lanciare la stolta provocazione. Infine tutto si è concluso con la bandiera ucraina proiettata sul fondale, un fitto scroscio di applausi e l’indomani una ridda di titoli polemici sui giornali del Mezzogiorno e non solo.
Tre giorni dopo il Teatro degli Arcimboldi di Milano organizzò il gala Pace for Peace con Jacopo Tissi e molti artisti già presenti all’evento napoletano. Questa volta nessun console è intervenuto, forse perché il simpatico duetto italiano, composto da Sasha Riva e Simone Repele, ha interpretato Inno alla vita, una coreografia su musiche di Arvo Pärt ma anche sull’inno nazionale ucraino. Inoltre musiche e coreografi non erano solo russi. Ipotesi flebili per un gala nel complesso poco riuscito e soprattutto, ci dicono, ben poco affollato.
Mentre scriviamo, al Teatro Claudio Abbado di Ferrara è in corso Alice in Wonderland, show di arte circense con più di trenta atleti, acrobati e ballerini del Circus-Theatre Elysium di Kyiv. E’ stato l’ultimo capitolo di una triade organizzata dal Teatro estense: apripista, tra aprile e maggio, nel sostegno agli aggrediti da Putin. Il 5 aprile è andata in scena una discutibile Giselle interpretata dall’Ukrainian Classical Ballet, una compagnia di 50 elementi: allo scoppio della guerra si trovava in Francia. Il 9 aprile un gran polverone ha però gettato scompiglio tra gli ospitanti.
Un altro console ha negato la messinscena del Lago dei cigni, per via della musica di Tchaikovsky e d’imperio l’ha fatto sostituire con un Ukraina Gran Gala Ballet. Marcello Corvino, il direttore del teatro, non ha condiviso il divieto, diffondendo un comunicato in cui ribadisce che la cultura russa è patrimonio dell’umanità e della cultura occidentale in particolare, non è emanazione del governo russo, aggiungendo ciò che ormai molti in Italia hanno ben compreso: “La cultura deve unire, costruire ponti tra i popoli, non dividere”. Tuttavia, per non esporre gli artisti ospiti al tassativo decreto del governo ucraino che vieta al suo popolo di partecipare a opere, danze, eventi di cultura russa, ha accolto un gala comprendente passi a due: Don Chisciotte, Paquita, Le Corsaire e altri, guarda caso di tradizione russa. L’ignoranza non fa la guerra e coinvolge aggrediti e aggressori.
Di questi ultimi le nostre fonti sono ben informate. che si afferma sulla situazione culturale russa è falso. Con il rublo al rialzo, gli artisti guadagnano, per ora, anche di più. Balletto, opera, teatro: tutto continua come se niente fosse. Le compagnie accademiche, moderne, e di vario tipo lavorano nell’immenso paese a pieno regime e i teatri sono affollati. Non c’è niente da fare, dai tempi di Caterina la Grande, despota illuminata e sedotta dall’Europa, il popolo russo ha sempre amato lo spettacolo. Neppure “l’angioletto” Stalin, che censurava tutto quanto non fosse in linea con il suo Realismo socialista, è riuscito ad estirpare questa “malattia” dal suo popolo sovietico. Oggi, che si tratti di oligarchi in grado di pagare l’equivalente di 200/300 euro per assistere a un’opera o di normali lavoratori, questa passione non è affatto scemata. Ecco perché il posto lasciato vacante dal francese Laurent Hilaire al moscovita Stanislavskij è stato subito ricoperto da Maxim Sevagin, giovanissimo ballerino e coreografo di quella compagnia. Ed ecco risolto pure “il caso Svetlana Zakharova”: potrebbe sembrare un mistero, ma non lo è.
La meravigliosa ex prima ballerina étoile del Teatro alla Scala viene definita ucraina dall’incauta Wikipedia italiana perché nata a Lutsk. In realtà è russa. Il padre, un militare di stanza a Kyiv sino al 1995, le ha dato la cittadinanza di quello che poi sarebbe diventato il marito di lei, il famoso violinista russo Vadim Viktorovich Repin. Insieme i due continuano a esibirsi in eventi di musica e danza in giro per la Russia, come hanno sempre fatto dopo il loro matrimonio. Zak-Zak, come viene nominata dagli amici, è ancora in forze come étoile assoluta al Balletto del Bolshoi ma ormai raggiunta un’età matura, 43 anni a giugno, è anche star televisiva; organizza da 15 anni un festival per ragazzini di tutte le scuole russe e lo ha fatto anche in questo 2022 con i soldi del governo russo: dunque se ne sta a Mosca. Forse perché in passato è stata pure la prima ballerina accolta da Putin nella duma, il parlamento già zarista? Nient’affatto. Zak-Zak è contro la guerra, ma cosa dovrebbe fare se vive a Mosca e continua a lavorare? Certo ha rinunciato al Gala Fracci della Scala; non ballerà nella Giselle di luglio, ma resta “artista ospite”. Eppure, dall’8 al 10 settembre il Teatro Regio Opera Festival già annuncia il suo ritorno in Italia in un “Zakharova e Repin” dal titolo Pas de Deux for Toes and Fingers: la star danzerà con compagni di cordata del Bolshoi e anche con Tissi, già in Italia. Il direttore artistico del Regio, Sebastian F. Schwarz, non teme ritorsioni.
A Mosca potrebbe invece vacillare, o peggio, Vladimir Urin, da otto anni direttore generale del Teatro Bolshoi: ha gridato ai quattro venti il suo sdegno contro la guerra e in una conseguente e repentina boutade – difficile sia davvero tale –, Putin ha suggerito Valerij Gergiev come suo successore, così il direttore d’orchestra amico e miliardario sovrintenderebbe a due teatri, il Mariinskij (dal 1996) e il Bolshoi. Chi potrebbe risentirne sarebbe Makhar Vaziev, ma per ora questo eccellente reggente del Balletto del Bolshoi continua imperterrito a programmare 15-20 spettacoli di danza al mese. Del resto dirige una compagnia di 150 danzatori; ha perso le tournée dell’estate: a New York, a Londra, in Giappone. Ma forse ha meno difficoltà di Yuri Fateev. Dal 2008, alla testa del Balletto del Mariinskij, costui guida 200 danzatori, un pacchetto non proprio facile per le lunghe tournée occidentali, ma facilissimo da dirottare nelle tre sedi di cui gode il principale teatro di San Pietroburgo e sempre con non meno di 20 spettacoli al mese.
Viceversa, Vaziev, che ora rimpiange di aver lasciato la direzione del Balletto della Scala per il Bolshoi, potrebbe finire per presentare la sua compagnia in Cina, in Turchia, negli Emirati Arabi, in India, in Africa… Sempre che l’arrivo del compatriota Gergiev, osseto come lui, ma non proprio suo amico, non lo costringa a dimettersi. Però la sua fama di eccellente direttore potrebbe portarlo ovunque, persino negli States. Artisti e direttori di valore, a meno che non siano dei punibili mascalzoni, sono vanto del mondo, nel presente, nel passato, nel futuro.