(foto di Ansa)

50 anni dopo

Quattro verità intere sull'omicidio di Luigi Calabresi

Giuliano Ferrara

Non c’è una verità accertata ma non accettata. Di quella vicenda del 1972 oggi si conosce solo un racconto giudiziale falsificante, ma non è così. Gli anni 70 e la grandezza della famiglia

Luigi Calabresi, commissario di polizia che si trovò al centro di un periodo oscuro e barbarico della nostra storia, fu assassinato cinquant’anni fa. Una generazione di italiani ha conosciuto solo il racconto dell’omicidio e delle sue conseguenze umane, civili. Non c’erano, hanno seguito le cose nei loro sviluppi successivi, non ricordano nemmeno chiaramente gli anni Settanta, maledetti, da Calabresi al caso Moro. La morale prevalente oggi è che la verità sul delitto fu accertata al di là di ogni ragionevole dubbio, mediante un lungo processo, ma non ha avuto il suffragio del rispetto a essa dovuto. C’è un’Italia che non accetta di considerare Adriano Sofri il mandante, e che non crede provato il ruolo di organizzatore e di killer di Giorgio Pietrostefani e di Ovidio Bompressi, secondo il resoconto in confessione giudiziale e la chiamata in correità fornito da Leonardo Marino, convalidato dalla sentenza definitiva dopo un lungo dibattimento e diversi pronunciamenti delle corti. E questo sarebbe l’ultimo scandalo di una storia cupa e avvelenata dal pregiudizio, al quale si sottrae solo una schiera di colpevolisti privi di dubbi.


       
Malgrado il tempo passato, penso che sia importante correggere, secondo i propri intendimenti e la propria esperienza, questa opinione morale ormai dominante. Non c’è una verità accertata ma non accettata nel caso di Luigi Calabresi. Ce ne sono due. Una è quella dell’accusatore, che ha per così dire vinto il processo. L’altra è quella degli accusati, e in particolare dell’accusato numero uno, il mandante, che ha sempre negato e nega di aver dato il via all’omicidio del commissario. Ben due sentenze hanno assolto, prima della conclusione del più tortuoso processo degli ultimi decenni, coloro che Marino aveva indicato come complici del delitto a vario titolo. La seconda, emessa da una giuria popolare, fu travolta dalla decisione dei togati di scrivere una motivazione in dottrina detta “suicida”, fatta per essere respinta dalla Cassazione e generatrice dell’iter che ha poi portato alla conferma della condanna di primo grado. Non è un dettaglio irrilevante, e non è un dettaglio che le ulteriori sentenze possono cancellare, visto che il ragionevole dubbio al di là del quale si deve essere giudicati colpevoli è deflagrato con evidenza dentro il processo. Negli Stati Uniti d’America, una volta accertato che non fu il teste d’accusa ad andare dai Carabinieri per una confessione spontanea, ma furono questi ad andare da lui nell’ambito di sospetti su suoi comportamenti criminali, il processo sarebbe stato sospeso e l’accusa sarebbe caduta.

 

Ma due verità non bastano, sebbene debbano essere entrambe rispettate, fatta salva l’esecuzione legale della condanna a Sofri, con molti anni di galera e un comportamento quasi inaudito di dignità personale, fatti salvi i percorsi diversi del latitante Pietrostefani e del condannato graziato Bompressi. Ce ne sono una terza e poi una quarta. La terza verità, quella che forse oggi colpisce di più, è quella umana. Per via di fede cattolica o di esercizio poetico e disciplinato della memoria, la vedova del commissario, Gemma Calabresi, e i suoi figli, hanno provato con le loro parole e i loro comportamenti la verità della compassione, anche al di là della dimensione personale e inattaccabile del perdono, il che è struggente. Le gambe del bambino Mario Calabresi che si stringono ai capelli del padre sulle cui spalle vede il luccichio di un trombone della banda degli Alpini, il 14 maggio del 1972, qualche giorno prima del delitto, e la fotografia che probabilmente ritrae da dietro la scena, sono una testimonianza, quella sì definitiva, di questa terza verità.

 

Infine, una quarta verità, che non ha niente a che vedere né con la giustizia degli uomini né con la compassione. Chi ha ascoltato e ascolta il racconto univoco su quel delitto, e sul controverso itinerario del castigo, non deve essere privato del giudizio politico su una stagione italiana di oscurità, di odio, di morte, di ideologia e di traffici loschi, anche di stato, che ha portato via con sé la giovinezza e la maturità di molti che allora c’erano. Non tutti firmavano appelli calunniosi e violenti contro il commissario ucciso. Non tutti cedevano alle retoriche abissali sulla strage di stato, che furono un motore della reazione violenta, fino al terrorismo e a una sorta di guerra civile, perseguita accanitamente dal partito armato che alla fine incarcerò e “giustiziò” Aldo Moro in un “carcere del popolo”.

 

C’era in quegli anni torbidi chi denunciava la deriva dei gruppi ideologizzati usciti dal Sessantotto con i suoi miti rivoltosi calcificati, chi vedeva quanto di aberrante poteva nascere dalle retoriche resistenziali e moralistiche del mondo azionista; c’era chi organizzava le mobilitazioni, gli scioperi contro la violenza politica, chi predicava e agiva contro il terrorismo e un largo ceto intellettuale e professionale che lo fiancheggiava o lo proteggeva; c’era chi cercava di collegare i fili della violenza e vedeva in Lotta Continua anche la contiguità naturale con le aree di fermentazione della lotta armata; c’era chi negava la infame teoria del doppio stato, in cui si scambiavano le trame sempreverdi e semprenere degli apparati e di luoghi deviati degli apparati con la logica e la vita del sistema democratico: e non furono pochi coloro che vedevano con un misto di orrore e disprezzo la campagna di stampa esecrabile contro il commissario indicato come l’assassino dell’anarchico Giuseppe Pinelli

 

Per la verità storica, molti di questi che non voltarono allora la faccia dall’altra parte facevano integralmente parte del Partito comunista italiano e si ispiravano a una diffidenza di lunga data, togliattiana, nei confronti dell’estremismo politico e dei suoi tremendi equivoci. Si sono riuniti in un teatro milanese, compreso Paolo Mieli, tra i firmatari pentiti del manifesto dell’odio, e pieno di vergogna, tanti che oggi aderiscono a questa verità univoca sul delitto svelato e la verità accertata ma irrisa dai suoi negatori, in primo luogo dagli accusati. Non so se abbiano parlato della stagione degli anni Settanta e della verità fosca di quegli anni, comprese le responsabilità di apparati statali nell’intorbidamento delle acque. Non so se abbiano parlato della seconda verità, quella difensiva, degli accusati dell’omicidio. Se lo hanno fatto, vuol dire che quella storia diventa comprensibile e può essere assimilata nei suoi aspetti controversi, se no, vuol dire che ha cerimonialmente trionfato una verità univoca, forzata e non persuasiva.

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.