André Derain, Golden Age, 1905

Cari seguaci di Hobbes e Rousseau, i vostri maestri si erano sbagliati

Sergio Belardinelli

Non c’è nessuna ragione per assecondare l’idea secondo la quale siamo l’esito inevitabile degli ultimi diecimila anni di storia

La gerarchia, il potere, la ricerca dell’interesse personale, sono sempre state considerate come caratteristiche fondamentali della società umana. Fa poca differenza che vengano spiegate e accettate, alla Hobbes, con l’endemica cattiveria degli uomini, oppure spiegate e vilipese, alla Rousseau, imputando alla civiltà, la distruzione della nostra originaria innocenza e bontà. La società umana porta comunque in sé i segni della corruzione. C’è un peccato d’origine che la contraddistingue. Eppure sul fronte dell’antropologia culturale qualcosa si sta muovendo in un’altra direzione.

Contrariamente a quanto si pensa, molte delle prime comunità agricole e città erano prive di ranghi e gerarchie; erano organizzate secondo “principi fortemente egualitari, senza il bisogno di sovrani autoritari, guerrieri-politici ambiziosi o addirittura amministratori prepotenti”. Viene inoltre messa in discussione l’idea che un presunto “stato di natura”, comunque interpretato, possa costituire la base “di uno studio evolutivo della storia”, tale per cui l’invenzione dell’agricoltura generò la transizione dalle cosiddette “bande” alle “tribù”, quindi la proprietà privata e l’inevitabile gerarchizzazione. In breve, il quadro generale della storia, condiviso tanto dai seguaci di Hobbes quanto da quelli di Rousseau, non avrebbe “quasi nulla a che vedere coi fatti”, avrebbe “gravi implicazioni politiche” e presupporrebbe una narrazione della storia umana “non solo sbagliata, ma anche inutilmente noiosa”. Questo è ciò che ci viene detto in un libro di oltre settecento pagine, provocatorio, anche discutibile, ma bello e affascinante, scritto da un antropologo culturale (David Graeber) e un archeologo (David Wengrow), pubblicato lo scorso anno negli Stati Uniti e appena uscito in traduzione italiana: L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità (Rizzoli). 

Dopo un lungo discorso su Rousseau come l’autore che più di ogni altro ha aperto una discussione sulla disuguaglianza generatrice di innumerevoli equivoci, gli autori sintetizzano in questo modo la loro prospettiva: “Per essere chiari, non giudichiamo poco interessante o poco significativo il fatto che principi, giudici, supervisori o sacerdoti ereditari – o, se è per questo, la scrittura, le città e l’agricoltura – siano comparsi solo a un certo punto della storia dell’umanità. Al contrario, per comprendere la nostra attuale situazione come specie è indispensabile capire come siano nate queste cose. Tuttavia vogliamo anche precisare che, per farlo, dovremmo resistere alla tentazione di trattare i nostri lontani antenati come una sorta di brodo primordiale umano. Le prove raccolte dall’archeologia, dall’antropologia e dai campi affini indicano che gli uomini della preistoria avevano idee molto precise su cosa fosse importante nelle loro società, che queste idee variavano notevolmente e che definire queste società uniformemente ‘ugualitarie’ non ci dice quasi nulla sul loro conto”.

 

Non esiste insomma una “forma originaria” della società umana, dalla quale si sono evolutivamente sviluppate le forme storiche che conosciamo. Stando ai due studiosi, e la tesi mi sembra decisamente interessante, l’unica cosa che possiamo dire dell’organizzazione sociale dei nostri antenati è che con tutta probabilità essa era molto “variegata”. Impressionante la mole di studi e ricerche che viene addotta a sostegno di questa tesi; affascinante dover prendere atto che i primi esseri umani abitavano una vasta gamma di ambienti naturali che li rendeva molto più eterogenei degli uomini d’oggi, sia sul piano fisico che su quello sociale.
Contro lo stereotipo ancora dominante, che vuole l’inizio della civiltà, della disuguaglianza, delle città, ecc., col passaggio dalle bande dei raccoglitori ai più vasti insediamenti degli agricoltori, ci viene presentata una varietà di stili di vita e di “istituzioni”, almeno per me, del tutto stupefacente. Faccio soltanto un esempio: già all’inizio dell’ultima èra glaciale, i nostri lontani antenati “oscillavano tra sistemi sociali alternativi, costruendo monumenti e poi smantellandoli, permettendo l’ascesa di strutture autoritarie in certi periodi dell’anno e poi distruggendole. E tutto questo, sembrerebbe, affinché nessun ordine sociale particolare diventasse mai fisso o immutabile. Lo stesso individuo poteva trascorrere la vita in quella che a noi sembra ora una banda, ora una tribù, ora qualcosa con almeno alcune delle caratteristiche oggi associate agli stati”.

Qui non è soltanto la tradizionale teoria evolutiva a essere messa in discussione, l’idea che le società si siano evolute secondo fasi più o meno uniformi verso una sempre maggiore “complessità”, ma anche l’idea che vorrebbe i primi uomini pressoché privi, mi si passi l’espressione, di qualsiasi coscienza politica. Non ci sono prove che l’adozione dell’agricoltura in periodi più remoti abbia sempre significato anche l’inizio della proprietà privata terriera, della territorialità o di un allontanamento irreversibile dall’ugualitarismo dei foraggiatori. Il fatto che gli uomini praticassero una vera e propria “agricoltura per gioco” in certe stagioni e vivessero come raccoglitori in altre, genera indubbiamente scompiglio nel tradizionale ordine evolutivo. Ma ancora di più genera scompiglio la flessibilità istituzionale che ne scaturisce, la pluralità davvero sconcertante che contraddistingue i modi e i tempi di esercitare il potere, l’alternanza dei generi al potere, le ritualità collegate al sue esercizio, in breve: la sconcertante capacità degli uomini dell’ultima era glaciale di entrare e uscire da una determinata struttura, di fare e disfare i mondi politici nei quali vivevano. Altro che innocenza rousseauiana!

Stando a quanto ci dicono Graeber e Wengrow, siamo di fronte a persone molto più brave di noi a creare “ordini sociali alternativi”, nonché vere e proprie “società contro lo stato”, tese ad impedire qualsiasi forma di cristallizzazione del potere. Un’attualità sconcertante. “Le primissime tracce note di vita sociale umana – essi scrivono – assomigliano a una sfilata carnevalesca di forme politiche, molto più che alle monotone astrazioni della teoria evolutiva”. Ma allora come abbiamo potuto perdere  questa autocoscienza politica? Come siamo arrivati a trattare l’eminenza e la sottomissione non come espedienti temporanei, o addirittura come la pompa e lo sfarzo di un ambizioso teatro stagionale, bensì come elementi inevitabili della condizione umana? Se abbiamo iniziato un gioco, quando abbiamo dimenticato che stavamo giocando?

Queste le domande che secondo Graber e Wendrow dovremmo porci, anziché perdere tempo dietro alle origini della disuguaglianza tra gli uomini. Come viene detto all’inizio del libro, “La questione ultima della storia dell’umanità non è l’equo accesso alle risorse materiali (terre, alimenti, mezzi di produzione), per quanto queste siano ovviamente importanti, bensì l’equa capacità di partecipare alle decisioni sulla nostra convivenza”. 
Ne esce un quadro bello e provocatorio che ci invita a riflettere, non tanto sulla “missione civilizzatrice” dei moderni imperi agrari, quanto sulla “ecologia della libertà” che contraddistingue l’agricoltura praticata dai nostri antenati diecimila anni fa. “Agricoltura per gioco” la chiamano i nostri autori, nella quale si esprime soprattutto “la propensione delle società umane a praticare l’agricoltura senza diventare davvero agricoltori, a crescere colture e allevare animali senza cedere una parte eccessiva della propria esistenza ai rigori logistici dell’agricoltura, e a mantenere una rete alimentare abbastanza ampia per impedire che la coltivazione diventi questione di vita o di morte”.

 

Quanto alla politica, impariamo che essa c’era molto prima che ci fosse la polis e che coincideva spesso con espressioni di “egualitarismo autocosciente”, di “coalizione volontaria” riscontrabili in città molto estese ma pressoché prive di qualsiasi traccia di stratificazione o di potere assimilabile a ciò che chiamiamo “stato”; impariamo infine che il governo delle leggi e non degli uomini, il quale, secondo Montesquieu, avrebbe dovuto proteggere lo spirito della libertà individuale, “era dilagante nel Nordamerica molto prima che entrassero in scena i coloni europei”. Non c’è insomma nessuna ragione per assecondare l’idea, tutt’ora dominante nelle scienze antropologiche e sociali, secondo la quale siamo semplicemente l’esito inevitabile degli ultimi diecimila anni di storia. Non esiste nemmeno un’umanità originaria, perduta la quale civiltà e complessità non sono più compatibili con la libertà. Pare che le fasi in cui esistettero società libere o relativamente libere non siano affatto poche (bellissime le pagine del libro dedicate alla Creta minoica e alla cultura Hopewell). La storia umana è dunque molto più ricca delle nostre supposizioni. Per non dire delle “possibilità alternative o delle strade non prese” che sempre si sono presentate nel corso dei secoli e dei millenni e che sono disponibili anche oggi. Se ci pensiamo bene sono un motivo di speranza.  

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