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questione di stile

Il declino dei critici e l'ascesa dei linguisti, che disgrazia per la letteratura!

Alfonso Berardinelli

Per gli studiosi della lingua gli scrittori da tenere in considerazione sono i più venduti e i più pubblicati, ma si rischia di perdere il legame con secoli di storia letteraria

Da almeno una decina d’anni o forse più, i linguisti sono diventati una sciagura per la cultura letteraria italiana. Parlano di lingua, ma capiscono poco di letteratura. La loro ascesa è stata parallela al declino della critica e dell’italianistica. Quindi non è colpa esclusiva dei linguisti. E’ che la letteratura italiana, in quanto letteratura di una singola nazione, non interessa più, anche perché i primi ai quali importa poco o niente sono gli scrittori italiani del Duemila, che tutto vorrebbero fuorché essere italiani. Della loro tradizione letteraria hanno perso memoria. Vorrebbero essere angloitaliani, come i famosi angloindiani e tutti gli altri anglofoni della Terra.

 

Il primo a farlo capire un po’ troppo chiaramente fu uno scrittore che si scelse come pseudonimo autopubblicitario “Tommaso Pincio”, dato che aveva allora una grande fama l’americano Thomas Pynchon, narratore di punta della corrente postmodernista. L’astuta scelta non gli giovò poi molto, ma fu chiara la sua logica. D’altra parte un critico e italianista ben dotato sia di memoria che di orecchio, Giorgio Ficara, ebbe anni fa una percezione così nitida della nostra situazione letteraria da sentirsi quasi costretto dalla realtà a scrivere un pamphlet che suscitò scandalo e riprovazione “negli ambienti”: si intitolava Lettere non italiane, nel senso inequivocabile che gli scrittori italiani, pur essendo ancora italofoni, non avevano più niente a che fare con la letteratura italiana di cui, nelle loro pagine, non si avvertiva più il minimo sentore. Il libro uscì nel 2016 da Bompiani, il suo sottotitolo era “Considerazioni su una letteratura interrotta” e conteneva queste parole: “Manzoni e Gadda, ad esempio, sarebbero continui. Gadda ed Eco discontinui. Non si tratta di alto e basso, di Literatur e Trivialliteratur, quanto propriamente di valori un tempo equiparabili, oggi non più equiparabili”.

 

Si trattava non solo di lingua, evidentemente, ma di stile, cioè di valore, di qualità letteraria. Per capirlo e constatarlo ci voleva ciò che Garboli chiamava “orecchio”, quel quid, continua Ficara, “che accanto all’intelligenza, alla sapienza, al buon senso permette al critico di orientarsi e di servire la letteratura”. A sostegno della sua tesi e intuizione, Ficara citava le diagnosi concomitanti di Steiner, Ferroni, Todorov e William Marx, che vedevano la doppia crisi di letteratura e critica letteraria. Non si può negare che esistano oggi autori nei quali la continuità con la letteratura del Novecento prevalga sulla discontinuità: ma questo accade più a certi critici-saggisti (per loro la memoria conta) che a narratori o poeti. E’ così che a parlare di letteratura recente o “circostante” (come l’ha definita Gianluigi Simonetti) arrivano e sono ben accolti i linguisti, o meglio gli storici della lingua.

 

Secondo l’idea che per essere “scientifici” bisogna essere “avalutativi”, cioè privi di giudizio e insensibili, indifferenti alla qualità letteraria, i linguisti mettono in fila le loro osservazioni su lessico, grammatica e sintassi, sulla lingua vista come realtà neutra, né buona né cattiva per definizione ma semplicemente usata, e prendono per buoni gli scrittori semplicemente più venduti e pubblicati dai maggiori editori, scrittori presi perciò per garantiti, riconosciuti, autorevoli. Dal momento che al linguista piace ciò che piace, anche lui di conseguenza piace: è autorevole, riconoscibile, scientifico, perché non rischia mai di essere “divisivo”. Non giudica, lui, accetta, prende atto, descrive, mette agli atti, archivia e cataloga come un entomologo fa con gli insetti. Pratica cioè una scienza sociale e umana, la linguistica, come una scienza naturale. Chi scrive e pubblica è uno scrittore, chi va a capo è un poeta, chi vende molto è più scrittore di chi vende poco: il suo italiano è ipso facto “italiano letterario”.

 

Ho appena ricevuto la nuova edizione riveduta e aggiornata al Duemila della Storia dell’italiano letterario di Vittorio Coletti (Einaudi). L’autore riconosce “la difficoltà e l’inevitabile provvisorietà” nel selezionare e giudicare gli ultimi scrittori che analizza; eppure le sue analisi promuovono di fatto a importante letteratura autori di cui si può fare a meno tranquillamente, se non con profitto. L’analisi accurata sembra infatti consacrare di per sé gli oggetti a cui si applica, come hanno insegnato Umberto Eco e gli scienziati della cultura di massa. Succede purtroppo anche a Coletti; che però dimentica, escludendo dalla sua nozione di letteratura, autori come Praz e Gramsci, Debenedetti e Fortini, Manganelli, Parise e La Capria, Garboli e Bellocchio, Ripellino, Ceronetti, Magris… Che cos’è l’italiano letterario, se non ci si chiede o non si sa che cos’è letteratura?

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