facce dispari

Lucio Montecchio, naturalista della ‘Mesopotamia' veneta

Francesco Palmieri

Il 15 maggio l'Italia "ha esaurito le risorse naturali disponibili per il 2022. Se si trattasse di soldi saremmo più attenti". Anche per questo "dovremmo ridare valore al buon senso", sia quando facciamo la spesa, sia quando potiamo gli alberi. Intervista al professore di Forest pathology e Salute e benessere degli alberi ornamentali all’Università di Padova

Al professor Lucio Montecchio, cinquantanove anni, cattedra all’Università di Padova, si potrebbero adattare i versi di Seamus Heaney: mentre il padre e il nonno scavavano patate, lui scava con la penna perché non possiede vanga “to follow men like them”. “Between my finger and my thumb/The squat pen rests./I’ll dig with it”.

 

Ordinario di Forest pathology e Salute e benessere degli alberi ornamentali, Montecchio è stato definito, dal Financial Times, “The man who saves trees”. Con un blog, i libri (l’ultimo, ‘Pane e noci’, edito da Ronzani) e i reading, Montecchio allarga il suo uditorio al di là dell’accademia per sollecitare una riflessione sulla crisi ambientale, convinto che i comportamenti individuali siano determinanti per riparare agli errori collettivi commessi. Nato a Piove di Sacco nella campagna padovana, la sua Mesopotamia è tra il Piave e il Brenta, dove dal secondo dopoguerra è avvenuta la drammatica trasformazione dall’agricoltura tradizionale a quella industrializzata.

   

Foto E. Datrino 
  

Le maestrine dalla penna rossa la definirebbero un boomer e anche al “salvatore degli alberi” attribuirebbero colpe generazionali.

La nostra generazione ha subìto con passività e leggerezza il boom economico. Però quando nel mio paese impiantarono uno zuccherificio, arrivarono anche le scuole e l’illuminazione stradale. Ci ha rovinati piuttosto la certezza della mancetta domenicale, per cui pochi si preoccupano che il 15 maggio scorso l’Italia ha celebrato l’Overshoot Day, ossia ha esaurito le risorse naturali disponibili per il 2022. Se si trattasse di soldi saremmo più attenti. Ci lamentiamo che aumenta la benzina ma mezzo litro d’acqua in bottiglietta costa lo stesso, perché non si vuol bere quella del rubinetto.

   

Tutti colpevoli?

Dovremmo ridare valore al buon senso. Sono le mode che creano il mercato: viviamo come regalo divino mangiare pesce crudo dopo che abbiamo imparato millenni fa a cuocerlo. Vedo a Venezia turisti asiatici comprare vetri fatti in Asia e amici veneti che acquistano a Londra occhiali fatti qui. Il problema siamo noi: ci affidiamo alla grande distribuzione, non leggiamo le etichette, non valutiamo il prezzo sull’unità di misura, ci facciamo ingannare dalle confezioni. Quando ero bambino il pane nero costava meno del bianco ed era simbolo di povertà. Ci sono succhi di frutta ricavati da arance comprate in Sud America ma spremute qui e risultano “prodotti in Italia”. Sappiamo che le ciliegie si trovano a maggio, ma le vogliamo pure a Capodanno e sono cilene.

   

È che andiamo di fretta. Sembra difficile soffermarsi sulle etichette.

Noi crediamo di non avere tempo. La verità è che abbiamo perso il piacere di chiedere: “Buongiorno, a casa come va?”. Non so chi sia la cassiera del supermercato, ma col fruttivendolo dove vado da una vita ho tempo di parlare. Sarà lui a dirmi: non prendere queste mele. C’è confidenza, il sorriso, il rapporto di comunità.

   

Quando è cambiato tutto?

Con la corsa all’oro dei campi. Dopo la Seconda guerra mondiale molti contadini della bassa padovana dovettero scegliere se tenere i campi o la stalla. Chi abbandonò la stalla si trovò senza letame: partì la frenesia dei concimi chimici, si adoperarono persino i gas bellici. Si puntò sulla monocultura. Oggi le case di campagna sono rare o abbandonate, di fianco a villette anni ottanta che ostentano una pianta esotica. Sono fiducioso però che impareremo dagli errori. I miei studenti credono nel necessario cambiamento.

   

L’ambientalismo produce anche retorica. Come quella di piantare alberi.

Ci vuole buon senso. Finita la guerra in Alto Adige piantavano alberi da frutto. Potrebbero farlo anche le nostre amministrazioni nei parchi pubblici.

   

In una metropoli come Roma sembra che gli alberi creino più problemi che vantaggi. Come i pini ‘killer’ che cascano col maltempo.

Il pino ha le radici superficiali. Se vengono fresate per livellare l’asfalto sono attaccate dai parassiti che compromettono la stabilità dell’albero. La potatura urbana è fatta con la capitozzatura, che Plinio il Vecchio chiamava ‘castratio’. Costa meno, ma produce ferite che saranno colonizzate dai parassiti, faranno marcire parte della chioma e abbrevieranno la vita dell’albero. Non bisognerebbe operare su un filare di platani, ma su ciascuna unità: magari in cento metri solo due hanno bisogno di intervento, invece sono trattati in modo industriale. Non operano arboricoltori ma proprietari di motosega, più carpentieri che botanici.

   

Gli alberi hanno intelligenza o è solo fantasia tolkeniana?

Cicatrizzare ferite, disporre la chioma in funzione degli ostacoli, imparare dagli errori potremmo chiamarlo intelligenza. Ogni anno un albero attiva le gemme in funzione degli stimoli ricevuti, della pressione del vento e della neve. Si autodetermina ogni momento.

   

Qual è il suo preferito?

La farnia, un tipo di quercia diffuso in Europa. Ce ne sono che hanno mille anni. Lavoro molto in Gran Bretagna, dove la cultura dell’albero è diversa: noi siamo agricoltori e l’abitudine alla potatura deriva dalla frutticoltura, che lì è poco diffusa. Lì ci sono molti alberi di 1.500, 1.800 anni. Bellissimi malgrado i segni dell’età. Gli alberi monumentali in Italia sono pochi, si sono salvati quelli lontani dalle strade o troppo grossi per essere abbattuti prima che inventassero la motosega. O si sono salvati per motivi culturali, perché riferimenti simbolici o perché fungevano da indicatori stradali per gli analfabeti. Purtroppo gli alberi hanno una presenza così discreta che finché sono sani non ci accorgiamo di loro. Cominciamo a farlo quando s’ammalano o se cadono.

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