Surrealista a chi
Surrealismo: viaggio nel più complesso e completo movimento culturale del Novecento
La definizione artistica è diventata un'etichetta alla moda che spopola ovunque, dalle riviste all’ultima mostra. Ma lo spirito libertario di Breton, Ernst e Desnos è sempre più raro
Senza stupore ma con qualche giustificata irritazione siamo costretti a subire, provenienti dai biennali lidi veneziani, l’esibizione del sentito dire di quella è stata la più grande e complessa avanguardia del Novecento: il SURREALISMO. Ancor meno ci travolge d’entusiasmo l’idea che “uno dei padiglioni della sua Biennale” (quella di Cecilia Alemani, curatrice solitaria) abbia potuto con leggerezza invidiabile trasformarsi persino in “un’estensione editoriale del suo impegno di curatrice” grazie alla penna del direttore di Vanity Fair, per il quale lavorare con lei è “come accendere un faro nella notte della guerra, come aprire una breccia nella nebbia lasciata dalla pandemia”. Si dice di “storie di magia, di sogni, di trasformazione, di metamorfosi, di surrealismo… come un balsamo sulle ferite e come acqua nel deserto”. Magnifica enfasi, questa sì surreale; proprio lo stesso interessato entusiasmo che già sbordava dalle veline proto-incensatorie che si erano lette ancor prima della conferenza stampa in cui tutto profumava di “strepitoso” e descritto preventivamente con frasi adoranti del tipo “magia che mancava da tempo e rischiava di cancellare l’Italia dalle mappe dell’arte contemporanea”. Poi una selva di parole in libertà: “Padiglione che ci appare spontaneamente magico per diversi motivi, fantastico in quanto tale e non sistematico”. Si arriva al dono di “un mondo magico che regala allo spettatore un’aura di clandestinità e nasce da una contraddizione stessa della realtà”. Questo sì enigmatico!
Conviene allora salvarsi andando subito ad André Breton, artefice nel 1924 del Primo Manifesto dove si scriveva di surrealismo come “automatismo psichico puro per mezzo del quale ci si propone di esprimere, o verbalmente o per iscritto o in qualsiasi altro modo, il funzionamento reale del pensiero. Dettato del pensiero, in assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale”. E’ presto evidente che quanto Dada, con la sua pratica costante della negazione, non aveva potuto fare si trasferisce come eredità e progetto in mani surrealiste. Si tratta di dare fondamento a una dottrina che conservava nelle sue vene l’anarchismo, la forza della polemica, anche violenta, il senso della rivolta e della negazione. Il generale clima di nausea e sfiducia della cultura nei confronti della guerra e del dopoguerra, come scrive Mario De Micheli, fanno sì che “la frattura della crisi continui a essere aperta e a generare disagio”. Si tratta di una cesura dolorosa fra arte e società, tra mondo esteriore e mondo interiore, tra fantasia e realtà. Pensiero e azione in un difficile confronto col tema scottante della libertà. Non si tratta solo di produrre saggi, romanzi, quadri, sculture, poemi, si tratta piuttosto di dare un futuro, progettare un destino all’uomo sapendo bene che, come scriveva Rimbaud, “la letteratura è un’idiozia”.
Molto chiaro a Breton, e all’iniziale esigua compagine surrealista, che il destino di questo che è da considerare come il più complesso, completo e importante movimento culturale del Novecento, avesse in animo non soltanto di esplorare nuove vie per un’inedita sensibilità estetica, ma aspirasse in primo luogo a cambiare la vita.
Scava in profondo Paola Dècina Lombardi nel suo saggio del 2002 quando ricorda come lo svuotamento semantico a opera della banalizzazione dei termini “surreale”, “ surrealistico” intesi come curioso, bizzarro, stravagante, appariva già a Breton quasi un insulto teso a svuotare di profondità la sostanza poetica e ideologica di un movimento che in Italia tardava ad essere riconosciuto e studiato. La cultura fascista di quegli anni non poteva che osteggiare un progetto che si proponeva di “trasformare il mondo secondo Marx e cambiando la vita secondo Rimbaud”. L’accademia futurista osteggiava apertamente i versi di Breton, Aragon, Éluard scrivendo, come fece Soffici, che si trattava di “amenità e spiritosaggini decadenti e fumistiche che possono piacere solo ai cafoni italiani”. Per Bacchelli si tratta soltanto di scimuniti e per Montale il surrealismo non è che una babele parigina.
Il Primo Manifesto è del 1924, lo stesso anno del delitto Matteotti, ed è l’essenza di quel pensiero che sarà vittima in Italia di pregiudizi incrociati che vanno dall’estetica crociana alla cultura cattolica, all’intellighenzia di sinistra filostaliniana complice di quei processi sommari denunciati da Breton.
La Dichiarazione del 27 gennaio 1925 redatta da Antonin Artaud fu firmata dall’intero gruppo surrealista con Aragon, Crevel, Éluard, Max Ernst, Leiris, Masson, Péret, Queneau, Desnos e tutti gli altri e dichiara tra l’altro che “il surrealismo non è un nuovo o più facile mezzo di espressione e neppure una metafisica della poesia, è un mezzo totale dello spirito e di tutto ciò che gli somiglia”. Per dire con chiarezza degli intenti precisi e radicali del movimento aggiunge di avere “accoppiato la parola surrealista alla parola rivoluzione solo per dimostrare il carattere disinteressato e persino del tutto disperato, di questa rivoluzione”. Infine con chiarezza: “Il surrealismo non è una forma poetica”. Proprio in quegli anni troviamo la firma dei surrealisti mista a quella di altri intellettuali in calce a una serie di “appelli contro la dittatura e al ricorso sistemico alla tortura in Polonia (L’Humanité, 8 agosto 1925); per protestare contro la persecuzione del governo rumeno contro le minoranze etniche in Bessarabia; per denunciare le torture e la Corte Marziale in Ungheria” (Arturo Schwarz).
Ma è lo sguardo surrealista a segnare la profonda differenza dalle teorie e dalle pratiche delle altre avanguardie. Siamo di fronte ad un’autentica filosofia della vita e della storia che tende a riflettere e a scrutare ad ampio raggio il mondo materiale e ideale, uno sguardo acuto “sull’amore, sull’arte, sulla poesia e sulla rivoluzione”. Si tenta di arrivare ad una più nitida comprensione dell’essere umano, “premessa inderogabile all’azione attraverso l’esplorazione del mondo sommerso rivelata dalla psicanalisi freudiana” (Schwarz). Si parlerà di onnipotenza del sogno, di gioco disinteressato del pensiero. “Dico che bisogna essere veggenti, farsi veggenti: per noi si tratta soltanto di scoprire i mezzi per mettere in pratica questa parola d’ordine di Rimbaud” (Breton). Sarà però la conoscenza la condizione preliminare e indispensabile alla libertà e all’amore, poiché per “realizzare la pulsione irresistibile verso la libertà bisogna conoscere, e per conoscere bisogna amare”.
Schwarz ricordava sovente che le arti visive non sono che una delle componenti della costellazione surrealista. Soltanto una “comune esigenza ideale” può accomunare le opere di Max Ernst, André Masson, Man Ray, Joan Miró o Yves Tanguy.
L’interesse di Breton per il pensiero di Freud nasce sin da quando lavora come aiuto medico al centro psichiatrico di Saint-Dizier come aiuto del dottor Leroy, che era stato a sua volta assistente del celebre Jean-Martin Charcot. In quel periodo Breton utilizza l’interpretazione dei sogni e le libere associazioni ed è questa l’occasione per scoprire come nella follia abbiano sede vita, creatività e fantasia e che questi presunti smarrimenti della mente, alimentati da studi e letture, saranno bagaglio e sostanza delle proprie prossime ricerche. Quelli sono gli anni in cui saranno in uso a scopo terapeutico l’ipnosi e l’automatismo psicologico, al punto da far coniare allo psicologo Prosper Despine la definizione di automatismo come “prodotto di una macchina vivente priva di coscienza”. La Lombardi ci ricorda come non soltanto Freud sarà alla base del pensiero di Breton ma il suo interesse s’indirizzerà da subito verso gli studi sul tema del sonno ipnotico ampiamente trattato da Pierre Janet. Philippe Soupault scriverà che per i surrealisti quegli studi avranno la stessa importanza dei testi di Rimbaud e Lautréamont.
Si può dire che il lungo sogno a occhi spalancati dei surrealisti non fece mai perdere di vista la realtà politica alla quale essi credevano. Si trattava di voler conciliare la lotta politico-rivoluzionaria con le esigenze della ricerca intellettuale che mai dovrà sottomettersi alle volontà politiche, qualunque esse siano e “neppure marxiste”. “Il surrealismo, del resto, non tende forse al limite, a fare di questi due stati un solo stato, facendo giustizia della loro presunta inconciliabilità pratica, con tutti i mezzi a cominciare dal più primitivo di tutti (…) intendo parlare del richiamo al meraviglioso?” (Breton).
Dal 1925, quindi un anno dopo la pubblicazione del Primo Manifesto, il surrealismo s’indirizzò con energia verso la politica. La rivista Révolution Surréaliste si trasforma in Le Surréalisme au service de la révolution con la dichiarazione di fedeltà alla Terza Internazionale. Presto nascono dissidi all’interno del gruppo e diffidenza verso il Partito comunista francese dal quale Breton ed Éluard nel ’33 si allontanano. Proprio Éluard nel 1936 trasformerà il suo fervore politico nel diritto e nel dovere dei poeti di affermare d’essere “profondamente affondati nella vita degli altri” e dirà che “c’è una parola che non ho mai inteso senza emozione, una grande speranza, la più grande, quella di vincere le potenze della rovina e della morte che gravano sugli uomini; questa parola è: fraternizzazione”. Per questo i poeti e gli artisti surrealisti tutti “hanno insultato i loro maestri, non hanno più dèi, hanno imparato i canti di rivolta della folla miserabile, senza disgustarsi, cercano d’insegnarle i propri”.
Sostanziale è anche il rapporto tra il surrealismo e l’alchimia che già si può individuare nelle originali elaborazioni teoriche bretoniane. Riconoscere un parallelo tra natura, lo scopo e il metodo di questi sistemi ideologici: “L’uomo, come l’alchimista è il sognatore definitivo”, lo scopo ultimo dell’adepto, la conquista della libertà. Breton dirà che l’agente di trasmutazione universale è il fuoco dell’amore, precisando che “non si possono confondere col fuoco dell’alchimista le tiepide braci con le quali alcuni si scaldano”. Soltanto l’amore è “l’autentica panacea”. Alla sua fiamma si consuma il più alto connubio tra esistenza ed essenza. Quando Breton invita a non prendersi altra cura che della poesia è perché la poesia sarà impegnata “sulle vie di questa rivoluzione interiore il cui perfetto compimento potrebbe senz’altro confondersi con la ricerca della pietra filosofale come la intendono gli alchimisti”.
Davvero arduo il compito di narrare, approfondire e circoscrivere le ragioni e gli esiti di un’avanguardia tanto composita, radicale e colta della quale, di questi tempi, si vede esibita per lo più la vuota spoglia. In noi, provvisti di pazienza e di quel che resta di gusto ironico, rivive la stessa imbarazzante sensazione dei giorni in cui, a sentir parlare di esistenzialismo, più d’uno ci assicurava trattarsi di un fenomeno molto fashion fatto di abbigliamento total black, irritanti colli alti stile dolce vita, occhiali impenetrabili, una sorta di divisa ufficiale per smunti sfaccendati rannicchiati a tentar di scrivere capolavori su instabili tavolini nei trafficati dehors dei caffè in gran parte parigini. Le ombre della notte li avrebbero però castigati ingoiandoli in fumose jazzistiche caves, vero paradiso d’incomunicabilità.
Ben distanti da Orazio e dalla sua Ars Poetica che racconta la figura del laudator temporis acti, di chi rimpiange i bei tempi andati e celebra, divorato dalla nostalgia, un passato estinto, duriamo fatica a farci piacere cipria e belletto di certe mostre-sfilata frutto del generoso scraping the barrel, quello che dà l’idea di svaporare nell’irradiarsi dalle tremule muffe veneziane per dirigersi sicuro verso i prossimi approdi mercantili of course transoceanici. Digerire la dietetica versione di un surrealismo per sentito dire ci allontana da quella “nuova maniera d’espressione pura” indicata da Breton in omaggio a Guillaume Apollinaire che aveva definito Les Mamelles de Tirésias “drame surréaliste”. Ancora di più non dà nessun conto della costellazione di talenti, letterati, pittori, cineasti, da Magritte a Man Ray, da Buñuel a Prévert, da Tanguy a Aragon e di tutti gli altri indomiti talenti che si sono lasciati “esaltare dalla parola libertà”. Si può forse dire che il poeta più fedele all’idea che tiene strettamente uniti poetica e libertà è Robert Desnos, che la vive in maniera totale e per essa morirà a 44 anni nel campo di sterminio nazista di Terezin. Libertà per Desnos significava anche lottare sino in fondo nelle file della Resistenza francese nel gruppo Agir. Di lui Breton, prima del distacco dovuto al disaccordo sull’atteggiamento engagé di Breton (un gesto di libertà ancora!) aveva scritto: “Domandate a Robert Desnos, che tra noi è forse il più vicino alla verità (…) e ha pienamente giustificato la speranza che io ponevo nel surrealismo. Egli legge in se stesso come in un libro aperto e nulla fa per trattenere i fogli che si disperdono al vento della sua vita”.
Sonni ipnotici e scrittura automatica sono tra gli strumenti che, a sentire il poeta Di Palmo, approdano presto “alla successiva fase in cui il dettato poetico si compromette maggiormente con le istanze etiche e soprattutto amorose”. Trasporto senza limiti per la cantante e attrice belga Yvonne George e poi per la stella Youki Foujita e la sua sirena tatuata sulla coscia. Già Isidore Ducasse, presunto conte di Lautréamont, aveva dato alle stampe nel 1860 il primo canto degli sconvolgenti Chants de Maldoror, poema nel quale la sfrontata fantasia e l’energia adolescenziale dileggia la miseria dell’uomo attraverso una feroce scrittura senza freni inibitori e un lampante quanto dichiarato amore per il male. Intuizioni avanti lettera, accostamenti anticipatori dell’universo fantastico surreale. Basta ricordare quel “bello come l’incontro fortuito su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello”. Proprio la radice di quell’automatismo psichico che Salvator Dalì trasformerà in metodo paranoico–critico e sarà la guida ideologico-compositiva degli irritanti accostamenti di oggetti delle sue tele.
Stesse relazioni avventurose, giochi etico-materiali, viaggi seducenti, fiori di vetro e il corpo della donna davanti al fuoco ardente sono sostanza per L’Étoile de mer, un film che sta tutto nel foglio stropicciato del taschino di Desnos la sera prima di partire per Cuba nel 1928. E’ Man Ray che mi racconta nell’umido atelier di Rue Férou, 2 a Parigi di quel mito del cinema sperimentale che Raymond Aron definirà “doccia scozzese di documentario e poesia”.
Già lì si palesa il tema dell’incarnation, ibridazione come connubio tra fisico e spirituale, oggetto e corpo, proprio il tema ripreso da Leonora Carrington quando scrive di esser nata dalla comunione di sua madre e una macchina. Il cieco labirinto delle arti s’affida ora a temi spinosi come metamorfosi, ibridazione, abbraccio di umano e artificiale, carne e macchina, mentre Mario Perniola parla nel suo Sex appeal dell’inorganico di una sensualità che diviene neutra, inorganica, artificiale, fatta di un’eccitazione (anche in campo artistico) astratta, “priva di riguardo nei confronti della bellezza e in generale delle forme”.
Guy Debord e l’Internazionale situazionista, veri eredi di un surrealismo ormai flebile e in disarmo, sanno che le nostre società si servono dell’irrazionale e che “non essendo stata fatta la rivoluzione, tutto ciò che per il surrealismo ha costituito un margine di libertà si è trovato riverniciato e utilizzato dal mondo repressivo che i surrealisti hanno combattuto”. Venezia docet.