Annalucia Lomunno (Olycom) 

1972-2022

Un ricordo di Annalucia Lomunno. Raccontava il sud e la Puglia fuori dagli schemi

Antonio Gurrado

La scrittrice cinquantenne è morta qualche giorno fa. Ma che fine hanno fatto gli autori dell'antologia "Sporco al sole", che insieme a lei facevano auspicare una "école barisienne" anche in letteratura? Vent'anni fa alimentavano una narrativa che faceva a meno di trulli, mare e focacce

Ricordo Annalucia Lomunno di bellezza soave ma, più ancora, come un seme che al giro di secolo avrebbe dovuto far fiorire una nuova letteratura pugliese, non retorica, non vittimista, bensì ironica e sgargiante. Qualche giorno fa è morta all’improvviso cinquantenne – la notizia è stata diffusa dopo i funerali – e sui giornali trovo solo copincolla d’agenzia, in cui la si cita per “Rosa sospirosa”, romanzo Piemme nella longlist dello Strega 2001, “molto apprezzato per il suo linguaggio intriso di dialettismi pugliesi e di espressioni familiari al mondo dei giovani di allora”. Nessuno menziona la caratteristica saliente dello straordinario libro, un miscuglio vertiginoso di vernacolo e latino che, con ambizione folenghiana, era l’unico modo di raccontare una storia sordida di porno fatto in casa senza risultare né moralisti né morbosi.

Quel seme affondava in un terreno molto stratificato. Ricorderete che nel 1996 Einaudi Stile Libero aveva pubblicato la raccolta “Gioventù cannibale” – gioventù nell’accezione italiana, avevano trent’anni – presentando al mondo Aldo Nove, Pinketts, Ammaniti. Unica meridionale, la napoletana Luisa Brancaccio. Per questo, quattro anni dopo, la stessa casa aveva recuperato con “Disertori”. “Al Sud sta nascendo una frontiera letteraria vitale, con nuove cose da raccontare”, vantava il blurb ed era vero: apparivano così Antonio Pascale, Francesco Piccolo, Diego De Silva. Era una nidiata di napoletani con due eccezioni, il potentino Gaetano Cappelli e il salentino Livio Romano. 

Quest’ultimo era stato fra gli autori inclusi nell’operazione orchestrata nel 1998 da Michele Trecca, espertissimo critico letterario ed emulo foggiano di Tondelli che, presumibilmente stufo di recensire sulla Gazzetta del Mezzogiorno solo narratori di Piacenza o di Bergamo, aveva lanciato per le radio e per le aule un appello: giovani scrittori meridionali, addò state? Gli avevano risposto in massa. Così in “Sporco al sole” (che l’editrice Besa ha riproposto pochi mesi fa) avevano esordito Ottavio Cappellani, Giovanni Di Iacovo e tanti pugliesi: da Nardò Livio Romano, da Altamura Francesco Dezio, da Castellaneta Annalucia Lomunno.

C’era abbastanza talento da far auspicare, nel periodo in cui si affermava il pensiero meridiano di Franco Cassano, una école barisienne anche in letteratura; si affacciava l’idea che la narrativa pugliese potesse fare a meno dei trulli, del mare, della focaccia. Colpisce allora che gli autori pugliesi che vengono in mente oggi – i Carofiglio, i Desiati, i Lagioia, le Lattanzi eccetera – non discendano dallo stesso albero genealogico, vuoi perché appartengono a una generazione precedente o successiva, vuoi perché hanno seguito strade differenti, taluni magari senza farsi scrupolo di riqualificare il trullo, il mare o la focaccia. E, mentre i cannibali sono diventati soliti stronzi e venerati maestri, mentre i disertori napoletani hanno vinto lo Strega, hanno goduto di riduzioni cinematografiche, sono diventati autorevoli voci nel panorama culturale, i pugliesi più promettenti e dirompenti di vent’anni fa risultano dispersi. 

Vien fatto di pensare che, come l’Irlanda di Joyce, la Puglia sia la scrofa che divora i propri lattonzoli. Livio Romano, dopo “Mistandivò” con Einaudi, è passato a Sironi, Marsilio e infine Fernandel, che di recente ha ripescato il suo vecchio e disincantato “Niente da ridere”. Francesco Dezio, esploso quando Feltrinelli pubblicò “Nicola Rubino è entrato in fabbrica” (2004), è passato a Stilo, TerraRossa, Ensemble. Il mio preferito Cosimo Argentina, che esordì con Marsilio nell’ondata del 1999 con tutti i numeri per diventare un Hemingway rifugiato da Taranto in Brianza, è quello col percorso più accidentato: è passato da Sironi, Effigie, Fandango, minimum fax, Meridiano Zero, TerraRossa, Oligo. Ora vive una seconda giovinezza per l’attenzione dedicata all’Ilva, con un reportage uscito per minimum fax e il romanzo “Vicolo dell’acciaio” ristampato da Hacca come classico contemporaneo della letteratura industriale. Ma il suo capolavoro “Maschio adulto solitario” aveva dovuto peregrinare su non so quante scrivanie di editor prima di venire pubblicato da Manni, a San Cesario di Lecce, e la fantasmagoria borgesiana “Bar Blu Seves” è inspiegabilmente fuori commercio. 

Anche Annalucia Lomunno era andata smarrita. Aveva prodotto per Piemme un altro romanzo meno efficace con la parola Sud nel titolo, quindi un giallo per Marinotti, infine tante collaborazioni editoriali diventando firma stabile della rivista rosa “Confidenze”. Questo è il non detto dietro il caso che oggi sia ricordata solo come ex promessa, un’autrice che vent’anni fa andava quasi di moda poiché utilizzava “espressioni familiari al mondo dei giovani di allora”. Le sia lieve la terra; le sia lieve la Puglia.