(Foto di Ansa) 

L'intervista

In Russia il linguaggio è cambiato con la guerra. Parla la scrittrice Marina Višneveckaja

Valeria Cecilia

In questi cento giorni ci sono parole che stanno scomparendo e altre che sono tornate con significati nuovi. Ne tiene traccia l'autrice e sceneggiatrice di Kharkiv nel suo dizionario dei cambiamenti

Tra gli effetti della guerra ce ne è uno che lavora in modo sottile e lento, intaccando gradualmente qualcosa che è alla base dell’identità e della possibilità di esprimersi di un popolo: la lingua. Questo è ciò che sta accadendo in Russia, dove a causa dell’aggressione all’Ucraina ci sono parole che stanno scomparendo e altre che, in disuso da anni, sono tornate con significati nuovi. Poi ci sono i neologismi, necessari a comunicare (o nascondere) nuove realtà. In più si diffonde l’uso della cosiddetta lingua di Esopo, con la quale le cose vengono solo accennate, sfumate, ma sono ben comprese da chi “parla la stessa lingua”. E infine c’è la lingua del silenzio, che non sono in pochi a scegliere.

Tutto questo sta accadendo in Russia come conseguenza della guerra, ma non dallo scorso febbraio: da molto prima. Marina Višneveckaja, scrittrice e sceneggiatrice, nata nel 1955 a Kharkiv (allora era l’Ucraina sovietica) – pubblicata per la prima volta in Italia da Di Renzo Editore nel 2021, grazie a Marilena Rea che ha tradotto la sua pluripremiata raccolta di racconti “Per tentativi” –  vive a Mosca dagli anni Settanta e tra le altre cose, dal 2011, lavora al Dizionario dei cambiamenti, un’opera di ricerca continuativa su come la lingua cambia nel tempo, soprattutto nei suoi aspetti socio-politici. Il tempo di osservazione deve essere piuttosto lungo, i cambiamenti sono significativi se diventano stabili nel tempo, quindi il Dizionario dei cambiamenti esce ogni 2 o 3 anni. 
Lo scorso aprile è stata presentata l’edizione del 2022, relativa al periodo 2017-2018 a San Pietroburgo, al museo Anna Achmatova. L’evento è stato “senza ospiti inaspettati”, ci racconta Marina Višneveckaja attraverso Telegram, specificando che ecco, questo è un perfetto esempio di modo di dire usando il linguaggio di Esopo.

 


Per capire come la guerra in Ucraina stia trasformando la lingua si devono leggere però le edizioni passate dei dizionari. Tutto inizia nel 2011, quando Višneveckaja (già membro del comitato della Parola dell’anno) ha dato vita a una community su Facebook chiamata Dizionario dei cambiamenti. Oggi conta più di 2.300 iscritti e, ci spiega l’autrice, “A differenza dei partecipanti al progetto ‘La parola dell’anno’ che scelgono parole che esistono da tempo nella lingua ma che poi vengono recuperate con un senso traslato per circostanze (ad esempio nel 2011 la parola dell’anno era “polizia”, che ha sostituito “milizia”; nel 2015 era invece “rifugiati”, che allo stesso tempo è diventata la parola dell’anno in diversi altri paesi europei), noi ci occupiamo di neologismi, prestiti linguistici, meme che fanno parte del nostro discorso in questo preciso momento già note a tutti e che compaiono nelle nostre liste solo quando acquisiscono nuovi significati o il cui uso è associato a nuove circostanze”. Un esempio? Nel 2011 la parola “giacca trapuntata”, cioè giacca imbottita che era comune nell’Urss degli anni Trenta, specialmente nei campi di repressione di Stalin, è diventata un soprannome spregiativo per i patrioti sciovinisti intrisi di ideologia imperialista e nostalgici dell’Urss. 

 

Ma l’anno decisivo in cui ha preso corpo l’idea di andare oltre lo scambio su Facebook e pubblicare il primo Dizionario è stato non a caso il 2014, quando, racconta Višneveckaja, i vecchi termini “quinta colonna” e “patrioti nazionali” sono finiti nel nostro vocabolario per il fatto che (inaspettatamente per molti) sono stati riportati in vita nel discorso di Putin nel marzo 2014. Quello fu un anno di svolta nella Russia moderna, Višneveckaja ricorda che “iniziavano quegli eventi che oggi vengono chiamati ‘operazione speciale’. La nostra vita iniziò a cambiare radicalmente, la ‘Parola dell’anno’ fu non a caso il neologismo Krymnash, cioè ‘La-Crimea-è-nostra’: sulla bocca di alcuni era un’esclamazione di giubilo, sulla bocca di altri era un soprannome per i patrioti sciovinisti. Bene, il nostro dizionario include parole come Krymnashist (un sostenitore dell’annessione della Crimea alla Russia) e Krymnashism (l’ideologia dei krymnashist). Contemporaneamente, compariva nella nostra lingua l’espressione “Guerra civile fredda”, che descrive la spaccatura avvenuta nella società. Non sorprende che le pietre miliari del Dizionario 2014 siano state l’incitamento all’odio e la propaganda che poi hanno inghiottito i social media e i media filo-governativi”.

 

Successivamente, la casa editrice moscovita Tri kvadrata ha pubblicato il Dizionario dei cambiamenti 2015-2016 e quello del 2017-2018 (rispettivamente negli anni 2018 e 2022). “Tra le tendenze di questi anni – racconta Višneveckaja – c’è l’aumento del grado di aggressività nei discorsi dei propagandisti televisivi, e talvolta delle prime personalità del paese – e la moda che si crea con meme aggressivi come ‘Possiamo rifarlo!’, ‘Non far ridere i nostri Iskander’, fino ad arrivare a un vocabolario osceno (‘Deficienti m***’), che spesso compaiono su magliette e adesivi”. 

 

Oggi cosa sta succedendo? Višneveckaja ci spiega che lei e il suo gruppo di lavoro stanno raccogliendo nuove parole, nuovi meme, altro, ma tre mesi sono pochi per valutare il fenomeno e che  andrà visto a lungo termine cosa rimarrà e cosa no negli usi della lingua, ma certamente nel prossimo dizionario ci sarà una sezione “Dizionario della guerra”. Oggi, ci dice, “ci sono degli slang nuovi, per esempio l’espressione behind the tape che significa ‘nel territorio dell’operazione militare’”. Alcune persone poi usano anche il dizionario specifico dei russi che vivono in Ucraina, con parole offensive verso i russi. Inoltre da febbraio l’equipaggiamento militare russo inviato in Ucraina è contrassegnato con la lettera Z, e questa lettera ha generato diverse nuove parole: operazione Z, zetov (salutare i nostri soldati), zetka, che è un marchio di identificazione che viene applicato all’equipaggiamento militare. 

 

Il Dizionario dei cambiamenti è frutto di un lavoro di squadra, dell’uso della tecnologia (si usano anche gli strumenti semantici di Google), e di uno spirito di resistenza che da sempre anima le coscienze russe, forte di uno sguardo sulla realtà che sa dare valore ai piccoli movimenti oltre che alla grande storia, e che prende forza anche dall’ironia, elemento  sempre unito a quello della tragedia. E proprio l’ironia e la narrazione delle vicende individuali sullo sfondo della storia sono gli elementi che hanno sempre caratterizzato la poetica di Marina Višneveckaja. Da ragazza, ai tempi della scuola, aveva già pubblicato delle storie umoristiche sulla rivista “Junost” e, subito dopo il diploma, su “Literaturnaja Gazeta” – due testate ampiamente conosciute e prestigiose. 

 

Višneveckaja si è trasferita in Russa, a Mosca, cinquant’anni fa, dopo il liceo scientifico. E alla domanda se, ora che c’è la guerra, si sente più ucraina che russa risponde: “Sono sovietica – io sono della comunità russa in ucraina – e in quanto tale vivevo a metà tra cultura russa e ucraina. A scuola ha imparato l’ucraino e facevo i compiti in ucraino, mentre la lingua domestica era quella russa. E’ stato molto doloroso per me vedere la foto caricata su Facebook da un mio compagno di allora della nostra scuola con le finestre andate in frantumi per l’onda d’urto di un’esplosione”. A breve, sempre per la traduzione e la cura di Marilena Rea, usciranno il romanzo per ragazzi “C’era una volta Jaga” (Di Renzo Editore) e la brillante raccolta di racconti “Ma c’è il caffè dopo la morte?” (Queen Kristianka Edizioni). 

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