Effetto "Pastorale americana". Le sue domande anticipano le tragedie di oggi
Usciva 25 anni fa il romanzo con cui Philip Roth indagava nelle vite nascoste dell’America
È una questione di decibel. La ragione per così dire tecnica per cui il canto di Pastorale americana, a venticinque anni dalla sua uscita (il libro apparve il 12 maggio 1997), ci arriva ancora tanto intenso è semplice: perché è un coro. Sono tre le voci che ci cantano la sua storia, tutte rivelate nelle primissime parole del libro. La prima addirittura in copertina: sempre lei, l’America. E non un’America qualunque, l’America del suo famoso e famigerato sogno, talmente però assorbito dalla sua stessa leggenda da trasformarsi, appunto, in pastorale. Non è più il sogno epico di conquista, è il sogno dei muretti di campagna, delle case in pietra, della permanenza, dell’apparente protezione da ogni possibile attacco. Non ha più l’odore della prateria, ma dello sterco di vacca delle stalle. La rappresentazione più dettagliata della luminosità di quest’America – più, in realtà, uno stato della mente che un luogo geografico – impegna la parte centrale di Pastorale americana, come il frontone di un tempio dedicato a Gea.
La seconda delle anime attraverso cui il libro riesce a penetrare fino a noi è invece nominata nelle prime due parole del testo, seguite da un punto. Seymour Irving Levov, soprannominato lo Svedese per il suo portamento e i suoi colori vichinghi, non è solo l’impeccabile destinatario dell’adorazione della sua comunità, è lo strumento stesso della Storia (il corsivo è nel testo). Se questa sfumatura – appena al sesto paragrafo – non ci sfugge, capiamo immediatamente di non trovarci davanti a un semplice personaggio, davanti cioè a uno degli attori della nostra vicenda, ma davanti a un simbolo dell’intera umanità. In fondo è questa, no? la Storia: il guazzabuglio di vicende che riguardano la razza umana.
Seymour Irving Levov, soprannominato lo Svedese, è lo strumento stesso della Storia. Un simbolo dell’intera umanità
E’ talmente incatenato lo Svedese alla storia della sua America che appena dopo averlo dichiarato un suo strumento lo rimarca raccontando di aver distrutto il suo record di punteggio al basket del liceo nello stesso giorno del 1943 in cui “cinquantotto fortezze volanti furono abbattute dai caccia della Luftwaffe”.
La terza voce del coro appare già da qualche io e qualche noi dei primissimi capoversi, ma rivela la sua identità soltanto a una decina di pagine dall’inizio, strappando forse agli assidui lettori di Philip Roth un sorriso: il buon vecchio Nathan Zuckerman.
Incuriosito da una lettera dello Svedese, ricevuta dieci anni dopo il loro incontro allo Shea Stadium, Nathan prende a interrogarsi su questo singolare personaggio che da giovane abitava la rarefatta dimora del semidio, e per settanta pagine, con non poche giravolte, seguiamo le sue riflessioni, le sue domande, le sue cantonate.
È infine mentre balla con Joy Helpern – a una riunione di ex allievi del liceo, dopo aver ricevuto dal fratello minore dello Svedese un’informazione eufemisticamente rilevante, imbevuto della splendida, agrodolce nostalgia degli anziani – che Nathan giunge alla mirabile equazione letteraria che definisce l’imponenza dell’enigma da risolvere, e che lo lega indissolubilmente alle altre due voci del coro: la tragedia dell’uomo impreparato alla tragedia: cioè la tragedia di tutti. Ed è tra le braccia di Joy che Nathan intuisce l’unico modo per azzardare l’impresa: scomparire.
“Alle note mielate di Dream mi staccai da me stesso, mi isolai dal resto della compagnia e sognai… Sognai una cronaca realistica. Cominciai a studiare la sua vita – non la sua vita come dio o semidio dei cui trionfi si poteva esultare da ragazzi, ma la sua vita di attaccabile comune mortale – e inspiegabilmente, zacchete! – lo trovai a Deal, New Jersey, nella casa al mare, l’estate in cui sua figlia aveva undici anni, quando Merry non la smetteva più di sedersi sulle sue ginocchia o di chiamarlo con qualche vezzeggiativo, quando non poteva ‘resistere’, come diceva lei, a esaminare con la punta di un dito com’erano ben aderenti al cranio le sue orecchie”.
Il punto in cui il romanzo diventa in terza persona: un modo per entrare nei luoghi più oscuri della mente dello Svedese e di chi lo circonda
Da quest’istante in poi – pagina novantadue della prima edizione economica Einaudi – di Nathan non c’è più alcuna traccia, se non nella musica della sua voce. Da quel preciso istante, lì a piroettare e flirtare con Joy Helpern, Pastorale americana diventa in tutto e per tutto un romanzo in terza persona, con il più onnisciente dei narratori, talmente onnisciente da riuscire a entrare nell’auto dello Svedese quando sua figlia Merry era ancora bambina, nella casa di Old Rimrock con la prima moglie, nei luoghi più oscuri della mente sua e di chi lo circonda. Luoghi talmente reconditi da risultare sconosciuti perfino ai loro stessi proprietari.
C’è – per inciso – un illustre, simile precedente in letteratura: Madame Bovary. L’incipit del libro è narrato da un compagno di scuola di Charles: è attraverso il suo sguardo che ci vengono presentate le prime goffaggini del futuro dottor Bovary. Appena introdotto il protagonista, però, il narratore scompare. Che senso ha affidare a una sorta di fantasma, dalla vita oltretutto breve, l’attacco di un testo? Un testo, peraltro, generalmente riconosciuto come uno dei più grandi romanzi della storia; e un testo il cui autore è famoso per l’ossessiva cura.
Ci sono diverse teorie in merito, ma chissà, forse quelle prime pagine sono semplicemente lì per risolvere a Flaubert un annoso dilemma: che timbro ha un narratore onnisciente? Se ami scrivere, sbatti presto contro la consapevolezza che una narrazione in prima persona ha molti limiti. Sei sempre incatenato al tuo narratore, e lui ti impedisce per ovvi motivi di volare dove desideri. Ti offre però facilmente qualcosa di prezioso: una voce, un’urgenza. Quando ti immergi in un narratore onnisciente, scopri che è una sorta di dio, e le sue ragioni diventano improvvisamente distanti e imponderabili. Flaubert l’ha risolta così. Se ne è fregato della verosimiglianza ed è andato per la sua strada, come peraltro si comportano di solito i geni. Lo ha fatto inoltre talmente presto e con tale garbo che non ci abbiamo più pensato, onorando il patto di ingannarci.
Di fronte a ben altro gioco di prestigio ci troviamo in Pastorale americana. Per la bellezza di novanta pagine Nathan Zuckerman ci accompagna nel disvelamento delle sue nostalgie e dei suoi dubbi. Anche se già non lo conosciamo dai suoi libri precedenti, ci affezioniamo molto a lui. E al momento della certificazione della sua impresa siamo pronti a partire con lui per la cima, zaini in spalla, nervosi ed eccitati. Quando però già immaginiamo ore a scrutare seracchi e crepacci in sua compagnia, ci fa partire da soli.
In più – e qui siamo allo sbalordimento più completo, e alla più gustosa soddisfazione – ce lo mostra, il suo artificio, con un vero e proprio scoppio: zacchete! In inglese l’espressione è meno esplosiva (to say lo and behold, un’antica espressione di sorpresa), ma, domandando perdono a Roth, o a Zuckerman, noi italiani finiamo per restare più affezionati alla coraggiosa traduzione di Vincenzo Mantovani.
Una delle grandezze di “Pastorale americana” è che mostra sempre i suoi trucchi, eppure ci illude lo stesso. Un’entrata nel Circolo dei Classici
Una delle grandezze di Pastorale americana è che mostra sempre i suoi trucchi, eppure ci illude lo stesso. E’ come scoprire il meccanismo che tiene una donna sospesa a mezz’aria e trovarci comunque a credere che stia levitando. Finisci per domandarti se non lanci queste sue sfide per un unico scopo: appartenere al grande circolo dei Classici.
Qui Roth davvero la rischia: non solo parte in un impossibile multiplo carpiato, ma – con quello zacchete! – ci dice come lo sta facendo. Eppure finiamo comunque per restarne imbambolati.
La sfida invece la lancia a Madame Bovary – quindi in qualche modo al Consiglio d’amministrazione dei Classici – e, almeno in questo esercizio, asfalta l’avversario.
Non sono d’altronde soltanto l’agonismo, i volteggi, i colori dei fuochi d’artificio a rendere questo un momento memorabile della storia della letteratura. E’ ciò che accade in Nathan, la ragione del suo abbandono del palco, a essere commovente. Alle prese con la più ardua delle sue avventure, con l’impresa di investigare la tragedia di ognuno di noi, davanti alla consapevolezza della possibile disfatta, Nathan torna in sé, capisce che l’unico modo per tentare di raggiungere la cima – o l’abisso – è fare ciò che è, letteralmente, nato per fare: immaginare.
Nathan comprende che non sarà in grado di risolvere l’enigma se non va in profondità, e che non riuscirà ad andare in profondità se resta legato ai fatti noti della vita del suo eroe. Edward Morgan Forster, nel suo Aspetti del romanzo, usa un’espressione felice: vita nascosta. Ecco in cosa vanno a frugare i grandi romanzi e i grandi racconti. Nessun’altra forma di narrazione lo può fare con la stessa dovizia di dettagli, spingendosi tanto in profondità. Con quel gioco di prestigio, Roth e Nathan ci ricordano la ragione per cui continuiamo a leggere i romanzi.
Mentre però ti trovi ad ammirare i bagliori di quei fuochi d’artificio capisci che accade qualcosa di ancora più profondo e penetrante: nel magma dell’esplosione le tre voci del coro si fondono. Lo Svedese diventa parte stessa dell’America, dei suoi odori, dei suoi anfratti, di quella sintetica idea di felicità, e dello sbigottimento per tutto ciò che intende sbriciolare quella stessa felicità. E Nathan si trasforma, come il Tolstoj di Guerra e pace – o, per restare in casa, lo Steinbeck di Furore – nello sguardo della sua stessa nazione. Pastorale non è più, da quest’istante in poi, il romanzo di un individuo americano raccontato da un secondo individuo americano, ma diventa il romanzo di un intero paese, perfino di un’intera fetta del pianeta. Quella fetta di pianeta ci racconta la caduta delle sue illusioni, la ferocia della sua rabbia, il pantano in cui quella rabbia si trasforma e l’incapacità di venirne poi fuori. Fino a dipingerci, attraverso una cena che prende l’intera terza parte del libro, tutte le più viscide vesti che è in grado di indossare la sua parte apparentemente più ricca e felice.
Chiudono la cena, e il libro, due righe emblematiche, in grado di pavimentare la strada che porterà nel nuovo millennio e fino a noi, e che vale la pena ricordare:
“Ma cos’ha la loro vita che non va? Cosa diavolo c’è di meno riprovevole della vita dei Levov?”.
Ecco cosa Philip Roth e Nathan Zuckerman scovano in cima al loro personale Everest: il dubbio attraverso cui – quattro anni e quattro mesi dopo l’uscita di Pastorale, sulle macerie delle Torri gemelle – la Storia avrebbe soffiato sull’intera razza umana, attraverso cui la razza umana avrebbe ripreso a interrogarsi sulla propria identità.
In barba a chi teorizza che in letteratura si controlla tutto, che tutto è costruzione, molti romanzi hanno il potere di predire il futuro. Un amante della fantascienza potrebbe imbambolarci per ore con le profezie di Philip K. Dick o Jules Verne. E. B. White, per fare un favore a suo nipote, scrisse nel ’49 su Holiday un saggio su New York, nei cui passi finali riflette su come la città si stesse pericolosamente innalzando verso il cielo, rischiando attacchi di stormi di aeroplani. Il finale de La coscienza di Zeno anticipa di vent’anni la bomba atomica. Pastorale non manca neanche questo esame.
È accaduto molto dall’11/9 e nelle pieghe di ognuno di questi accadimenti sembra nascondersi una versione della domanda con cui “Pastorale” si chiude
È accaduto molto, in America e in occidente, da quel settembre del 2001, e nelle pieghe di ognuno di questi accadimenti sembra nascondersi una versione della domanda con cui Pastorale si chiude. L’abbiamo percepita nelle immagini degli impiegati di Lehman Brothers che se ne andavano lungo Broadway con i loro scatoloni in mano, nello spaesamento che è seguito, nelle parole di Barack Obama la notte della sua elezione, nella nascita ed espansione del voyeurismo della realtà digitale, nelle serrande dei negozi falliti, nei tentativi di riforme, nell’improvviso riemergere di termini ed espressioni che credevamo la Storia avesse cancellato, nell’aumento di insinuanti forme di paura.
Sembrerebbero essere soprattutto due le più diffuse derive di cocciutaggine che la paura per quella domanda ha scatenato: i populisimi e i nazionalisimi che hanno in America portato un loro rappresentante alla presidenza e quello che nelle chiacchiere di salotto chiamiamo politically correct, un nome come un altro per il più noioso e infantile dei giochi: quello dei buoni e dei cattivi. Tra l’altro, entrambe queste derive si trovano all’origine di due libri successivi di Roth: il malinteso per la frase di Coleman Silk ne La macchia umana e l’elezione di Charles Lindbergh ne Il complotto contro l’America. Fatti alla mano, l’unico evento storico dei nostri anni che, per quanto sappiamo, quella domanda non sembra aver anticipato o scatenato è la pandemia.
E mentre credevamo di iniziare forse a trovare una strada per inquadrare lentamente un’idea di risposta, ci siamo svegliati in mezzo alle notizie di nuovi bombardamenti. Non abbiamo impiegato molto a comprendere che ad essere attaccato era ben più di un confine geografico. E, ancora una volta, abbiamo ripreso a farci la stessa domanda: cosa c’è di meno riprovevole della nostra vita?