la legge del voto
Storia del proporzionale, tra ideali di rappresentanza e stabilità di governo
Nel codice genetico dei nostri avi è impresso il sistema maggioritario a doppio turno in collegi uninominali. Poi la svolta proporzionalista di Giolitti a inizio Novecento. Oggi si torna a discutere di legge elettorale, troppo spesso usata come arma contro gli avversari politici
Conte è (forse) favorevole, Renzi è contrario, Meloni è dubbiosa, Salvini resiste, Letta tentenna, ma sembra disposto a voltare pagina: il matrimonio col proporzionale si può fare. La strada resta in salita, ma è importante che il Pd, dopo un trentennio di tentativi infruttuosi, stia pensando seriamente di cambiare le carte in tavola. Non per caso, ogni volta che la legge elettorale è stato modificata anzitutto per metterlo in quel posto all’avversario politico di turno (Porcellum e Rosatellum), abbiamo puntualmente assistito a una sorta di eterogenesi dei fini che ha contribuito a delegittimare partiti e istituzioni. Oggi, inoltre, centrodestra e centrosinistra sono due schieramenti in cui il vincolo di coalizione è sempre più virtuale, mentre sembrano condividere soltanto il motto “ognuno per sé e nessuno per tutti”. Occorre fare i conti con la realtà, quindi, e uscire dalla guerra ideologica sulle regole del gioco.
A onor del vero, nel codice genetico dei nostri avi paterni – quelli materni non godevano del diritto di voto – è impresso il sistema maggioritario a doppio turno in collegi uninominali, che ha caratterizzato le elezioni tenutesi dal 1861 al 1911. Allora, in virtù del suffragio ristretto ai ceti abbienti, la vittoria di un candidato invece di un altro non era motivo di scontri memorabili. La scena mutò drasticamente quando la società divenne di massa e vennero meno quei fattori personali – lignaggio, censo, istruzione – che garantivano l’elezione dei notabili più in vista o più spregiudicati.
Ogni volta che la legge elettorale è stata modificata per danneggiare l’avversario politico, sono stati delegittimati i partiti e le istituzioni
All’inizio del Novecento, Giovanni Giolitti accettò la svolta proporzionalista temendo l’avanzata dei socialisti e dei popolari, che poteva tagliare l’erba sotto i piedi dei candidati liberali nei collegi uninominali. L’introduzione della proporzionale, prima annunciata insieme a un allargamento del suffragio, poi applicata per la prima volta nelle elezioni del 1919, aveva dunque un evidente e spiccato intento difensivo. Verso la fine dell’Ottocento, anche in Gran Bretagna l’ascesa dei laburisti stava insidiando il potere dei conservatori e dei liberali, che fino a quel momento se lo erano spartito alternandosi al governo del paese. Dopo qualche titubanza, i conservatori respinsero però qualsiasi riforma del sistema “plurality”, dove nei collegi, che sono uninominali, vince il seggio chi ottiene la maggioranza relativa dei voti. Soltanto nel 2011 venne indetto un referendum per il passaggio a un sistema denominato “voto alternativo”, peraltro anch’esso di impianto maggioritario. Fu bocciato sonoramente dai sudditi della regina Elisabetta.
Suddito della regina Vittoria era invece uno degli apostoli più agguerriti della rappresentanza proporzionale, John Stuart Mill: “Uomo per uomo, la minoranza deve essere rappresentata per intero così come accade per la maggioranza. Se questo manca il governo non postula l’eguaglianza, ma il privilegio e l’ineguaglianza”. Quando il filosofo di Pentonville diede alle stampe il suo libro più celebre, Considerazioni sul governo rappresentativo (1861), il proporzionalismo era ancora alle sue battute iniziali e aveva conosciuto una compiuta teoria solo da pochi anni, per merito dell’avvocato inglese Thomas Hare, che aveva pubblicato nel 1859 la prima edizione del Treatise on the Election of Representatives, Parliamentary and Municipal.
Mill e Hare avevano una chiara percezione dei problemi posti dalla rivoluzione industriale e dalla conseguente urbanizzazione. Due fenomeni che avevano provocato un vero e proprio terremoto demografico, ormai in stridente contrasto con l’ordinamento della Camera dei comuni, dove continuavano ad avere il diritto di eleggere deputati i “rotten boroughs” (borghi putridi), piccoli centri rurali controllati dall’aristocrazia fondiaria, a discapito di grandi città come Birmingham e Manchester, prive di rappresentanza (il più famoso dei borghi putridi, Old Sarum, con sei elettori eleggeva due parlamentari). Centri rurali di dimensioni più vaste erano invece i “pocket boroughs” (borghi tascabili), così chiamati perché letteralmente “nelle tasche” dei latifondisti che, grazie anche al voto palese, non incontravano difficoltà nel far eleggere i propri protetti.
Uno dei dogmi della Rivoluzione francese era stato il proporzionale, ma la Costituzione giacobina conservò un impianto maggioritario
Il primo progetto di riforma del sistema elettorale britannico fu presentato da whigs e radicali nel marzo 1831, sotto la spinta del movimento cartista e del Luglio francese. Esso divenne legge (Act) nel 1832. Abolì i borghi putridi, stabilì requisiti di voto uniformi per i “boroughs” e garantì una rappresentanza alle città più popolose. Nella seconda metà del secolo, tre Acts (nel 1867, 1872 e 1884) introdussero il voto segreto e abbassarono i requisiti patrimoniali del suffragio, allargandolo alla borghesia cittadina e ai primi nuclei di proletariato urbano. Il Redistribution of Seats Act (1885), infine, ridisegnò i confini delle contee (rimasti immutati dal 1660), sottraendo alla Corona la facoltà di fissare discrezionalmente il numero dei parlamentari, e generalizzò l’istituto del collegio uninominale. Veniva così sancito quel principio maggioritario nel mirino dei fautori del metodo proporzionale, i quali predicavano la necessità – che divenne la bandiera della loro battaglia – di distinguere tra voto deliberativo del Parlamento (che ovviamente richiedeva una maggioranza) e voto elettivo (che richiedeva invece una sua composizione proporzionale).
Uno dei dogmi della Rivoluzione francese era stato proprio la proporzionale (v. Daniele Maglie, Le origini del movimento proporzionalista in Italia e in Europa, disponibile in pdf). Due suoi protagonisti, l’abate Sieyès e il conte di Mirabeau, ne erano stati gli alfieri più inflessibili. La Costituzione del 1791 inaugurò tuttavia un complicato meccanismo, in base al quale le assemblee primarie dei cittadini nominavano gli elettori, i quali a loro volta avrebbero scelto a maggioranza assoluta i 745 membri dell’organismo legislativo. Non un sistema proporzionale, insomma, ma “majority” (a doppio turno) a tutto tondo. La Costituzione giacobina conservò questo impianto maggioritario, sia pure corretto con l’elezione diretta e il suffragio universale maschile. Del resto il suo nume tutelare, Jean-Jacques Rousseau, partendo da John Locke riteneva che “il n’y a qu’une seule loi qui par sa nature exige un consentement unanime. C’est le pacte social [...]”. Inoltre, “la voix du plus grand nombre oblige toujours tous les autres; c’est une suite du contract même...” (Du contract social, 1762).
Per altro verso, il filosofo ginevrino nella sua opera eponima cerca di superare la contraddizione che avverte in tali proposizioni spiegando perché, nel subire scelte cui non ha partecipato, il cittadino non è meno libero. E la supera sulla base del celebre sofisma che identifica volontà generale e volontà di ciascuno, in virtù del quale anche la minoranza in realtà “vuole” la volontà generale e, quindi, acconsente a ciò che decide la maggioranza (se vota in modo diverso vuol dire che s’inganna). In tal modo, la divisione fra maggioranza e minoranza diventa apparente. Nella concezione rousseauiana è del tutto assente, pertanto, ogni preoccupazione per i diritti delle minoranze. E anche se lo stesso Rousseau propone un temperamento ragionevole della regola maggioritaria, resta il fatto che le basi concettuali della sua teoria saranno utilizzate per giustificare prima il rigore giacobino poi il radicalismo democratico.
Il 27 maggio 1900 il Parlamento belga, per la prima volta in Europa, fu rinnovato con questo sistema. L’utopia divenne realtà
Ma sarà proprio un concittadino di Rousseau, Ernest Naville (1816-1909), a diventare il padre nobile della dottrina proporzionalista nell’Europa ottocentesca. Nato a Chancy da una famiglia borghese di tradizioni conservatrici, si laureò in teologia a Ginevra dove fu consacrato pastore. Spiritualista convinto in un’epoca dominata dal positivismo, profondamente scosso dai conflitti religiosi tra cattolici e protestanti e dalla guerra civile seguita allo scioglimento nel 1847 del Sonderbund (la lega separatista dei sette Cantoni cattolici), cominciò ad analizzare con scrupolo da scienziato sociale l’architettura istituzionale della patria di Giovanni Calvino e le tensioni a cui era sottoposta a causa di una legge elettorale maggioritaria che estrometteva le minoranze dal Gran Consiglio.
Vista la sordità delle autorità cantonali a ogni richiesta di riforma del sistema elettorale, Naville fondò “La Réformiste”, un’associazione destinata a diventare un modello per tutti i proporzionalisti del Vecchio continente. Ad essa si ispirò un’analoga associazione creata in Italia nel 1872, del cui comitato promotore facevano parte – tra gli altri – Terenzio Mamiani, Marco Minghetti, Attilio Brunialti, Luigi Luzzatti. Naville dovrà però attendere ventisette anni per vedere premiata la sua instancabile iniziativa riformatrice. Il 6 luglio 1892, infatti, il Gran Consiglio abrogò lo scrutinio maggioritario sostituendolo con quello proporzionale. Un mese dopo, i ginevrini furono chiamati a pronunciarsi sull’innovazione costituzionale. La sua approvazione non fu un plebiscito, ma segnò comunque uno spartiacque nella storia elettorale europea.
Anche il Belgio, come la Svizzera, era – ed è tuttora – attraversato da profonde divisioni di natura etnica e confessionale. La questione della rappresentanza delle minoranze divenne quindi ben presto cruciale. Poco dopo il suo battesimo come entità statuale autonoma (1830), si aprì un vivace dibattito sull’estensione del suffragio e sulle distorsioni del sistema maggioritario in vigore. Propagandate da un gruppo di intellettuali che facevano capo al Circolo letterario e alla Facoltà giuridica dell’Università di Bruxelles, le opere di Stuart Mill e la formula messa a punto da Hare (un proporzionale “perfetto”, che fotografava esattamente la realtà partitica di un paese) incontrarono subito un enorme successo. Nel contempo, i principali animatori della campagna contro gli abusi del maggioritario, tra cui Charles Potwin, Gustave Duchaine e Pety de Thozée, guadagnavano in tutti gli ambienti politici nuovi proseliti del verbo proporzionalista. Finché nel 1878 un matematico e giurista, Victor D’Hondt, pubblicò un opuscolo che imprimerà una brusca accelerazione alla vicenda del proporzionalismo in tutto il pianeta, La Représentation Proportionelle des Partis par un Électeur.
Senza entrare nei suoi tecnicismi, vi era descritto un metodo (in Italia sarà utilizzato per determinare la ripartizione dei seggi nelle province e al Senato) che segnò la separazione definitiva tra rappresentanza personale e rappresentanza dei partiti. L’entusiasmo suscitato dalla formula che prese il nome del suo ideatore ebbe un peso rilevante nella rapida approvazione di una legge che, volta a combattere le frodi elettorali, abituò i belgi a votare segretamente su una scheda precompilata contenente i simboli di partito, nonché a esprimere una preferenza per i candidati della lista prescelta. L’obiettivo dello scrutinio proporzionale sulla base di liste concorrenti era ormai a portata di mano. Il 27 maggio 1900 il Parlamento belga, per la prima volta in Europa, fu rinnovato con questo sistema.
Il problema di un’adeguata soglia di sbarramento. “Un quadro di regole stabile e condiviso è una questione di sicurezza nazionale”
Da quel momento in avanti, l’utopia divenne realtà. Una realtà per giunta facilmente esportabile in una fase storica nella quale i partiti di massa si apprestavano a soppiantare le vecchie formazioni di notabili. Dopo la riforma belga, nel corso di un ventennio praticamente tutti gli stati europei – eccetto l’Inghilterra – adottarono un sistema di tipo proporzionale. Un processo inarrestabile, a cui non sfuggì nemmeno la Germania di Weimar (1918-1939). D’altra parte, il partito più forte, vale a dire i socialdemocratici, non potevano certo sconfessare le loro lotte per una rappresentanza politica la più ampia possibile a sostegno della democrazia post-imperiale. Troppo spesso accusata di responsabilità non sue nell’ascesa del nazismo e nel crollo della Repubblica, la legge proporzionale tedesca applicata in grandi circoscrizioni, per di più con recupero dei resti, non prevedeva nessuna soglia minima per l’accesso al Reichstag.
Sarebbe sbagliato affermare che quella legge di per sé incoraggiasse, se non addirittura producesse, la frammentazione partitica. In ogni caso, il numero dei partiti passò da 14 nel 1920 a 28 nel 1932. Giovanni Sartori ha sostenuto che la proporzionale è la fotografia della frammentazione esistente nei partiti. Forse è più corretto affermare che le leggi proporzionali prive di qualsiasi soglia di accesso al Parlamento (o con soglie molto basse) favoriscono la frammentazione, come il caso italiano dimostra ad libitum. Di qui, come ha scritto Francesco Cundari, l’esigenza di fermare la giostra e ricostruire un sistema in cui ciascun partito si presenta con il suo simbolo e il suo programma, prende i voti su quelli e prende seggi in proporzione ai voti, magari anche con un’opportuna soglia di sbarramento. Con questi chiari di luna, “avere un quadro di regole stabile e condiviso è prima di tutto una questione di sicurezza nazionale”. Chi vivrà, vedrà.