La vita dello scrittore
Walser e il desiderio di diventare neve, che con pudore oblia il passato
Per lo scrittore tedesco che insieme ai connazionali Max Frisch e Friedrich Dürrenmatt, forma il trittico dei maggiori scrittori svizzeri del novecento, scrivere non è che servire: il tempo in cui vive e scrive è un tempo sospeso e come lui, i protagonisti dei suoi romanzi sono vagabondi o servitori
Chi più di un servo è di passaggio e, ciò nonostante, ci salva dal disordine? Robert Walser è posseduto da sprazzi di felicità maniaca e da un’ebbrezza che possiede il gelo, il biancore e l’intimità della neve. Lo scrittore e poeta svizzero di lingua tedesca, fra i maggiori del Novecento, nella vita fu impiegato, assistente dell’ingegnere Dubler a Wädenswil, cameriere e segretario per la Berliner Secession. Tuttavia egli non è un servitore a ore, non potrebbe, il tempo in cui vive e scrive è un tempo sospeso. I protagonisti dei romanzi di Walser sono vagabondi o servitori. Di passaggio, come solo chi si nasconde può essere, come solo chi non è veramente dove potrebbe essere appare, lo scrittore di Bienna, apprezzato da Kafka, Musil e Benjamin, ci porta nell’enigma del suo Castello, ovvero nella stanza delle candele (il cui accesso è “cosa severamente proibita”) e nel “misterioso e sconosciuto mondo degli appartamenti interni” dell’Istituto Benjamenta, una scuola che insegna a diventare ineccepibili domestici (Jakob von Gunten, Adelphi, 1970). Ma qual è la scena che abitano Kafka e Walser?
L’uno vorrebbe oltrepassare la porta della legge e accedere allo Splendore, che l’altro preferirebbe dimenticare. Walser desidera assonnarsi, divenire, piuttosto, biancore di neve, che con pudore oblia il passato e versa pace sulla commedia umana. Nota Calasso ne Il sonno del calligrafo: “Una sola volta Jakob osserva che nevica – e subito ricorda un’altra neve, ma è la neve visionaria apparsagli nella sua visita agli ‘appartamenti interni dell’Istituto’, una neve di cui non si sa in quale terra sia caduta”. Come non pensare all’analisi di Blanchot del racconto di Tolstoj Il padrone e il bracciante, in cui il padrone Brechunov e il servitore Nikita si perdono nella neve, e il primo, pervaso da uno sconfinato stupore, affascinato dalla bianca immensità, si abbandona all’impulso di soccorrere Nikita, e muore salvandolo? Invece i personaggi di Walser sono allucinati e imperturbabili. E provvisori, simili a giacche che non calzano bene o a bottoni ciondolanti che non ci si dà la briga di riattaccare. Le stanze dello scrittore, come quelle di Kafka, sono muri e, al contempo, ingressi e vedute.
Mentre passeggia in città guardando la folla estranea e osservandone il trapestio, Joseph, l’impiegato dell’ingegner Tobler, pensa: “Essere legato e incatenato a qualche luogo è talora più caloroso e ricco di dolci segreti che non sia la libertà aperta, che spalanca porte e finestre del mondo, ma poi nei suoi spazi luminosi non offre agli uomini che un freddo pungente o una torrida calura, mentre la libertà che aveva in mente lui, Joseph, vivaddio, era alla fine la cosa più utile e bella e offriva un incanto imperituro” (L’assistente, Adelphi, 2022, pp. 237, euro 19). Non a caso, in Ritratti di scrittori (Adelphi, 2004), Walser ci parla con trasporto di Hölderlin, che per 40 anni si è autorecluso nella torre di Tubinga poetando e profondendosi in parole di devozione e umiltà. Scrivere non è che servire. Tanto maggiore è la necessità di farsi servo, quanto più inevitabile è la potenza del dettato. Nel 1933 lo scrittore di Bienna viene ricoverato nell’istituto psichiatrico di Herisau; l’amico e tutore Carl Seelig lo va a trovare regolarmente. Muore nel 1956, passeggiando nella neve.