Facce dispari
Giuseppe Culicchia: “Scrivere in un mondo alla rovescia”
Parla lo scrittore e traduttore italiano. "Il problema è far durare un libro. Le novità sono troppe, gli editori non possono seguirle più di un mese, gli uffici stampa faticano e i librai devono far ruotare i titoli. Invece un libro per incontrare i suoi lettori a volte ha bisogno di tempo"
Nessuno meglio di lui avrebbe potuto tradurre ‘Bianco’ di Bret Easton Ellis, condividendone in pieno lo sbigottimento per “un tipo di totalitarismo che in realtà aborre la libertà di opinione e punisce chi si rivela per quello che è davvero”. Né altri con maggior piacere di Giuseppe Culicchia avrebbe traslato il rimpianto dello scrittore americano per l’epoca in cui potevi esprimere le tue opinioni “senza essere considerato un troll e un hater da escludere dal mondo ‘civilizzato’ se le tue idee erano diverse da quelle della maggioranza”. Autore tra molte opere di successo anche del flaubertiano dizionario ‘E finsero felici e contenti’, Culicchia rivede persino in peggio – ma alleggerito dall’ironia – le cogitazioni ellisiane dopo la bolla temporale della pandemia.
Se ne siamo usciti, come ne siamo usciti?
Altro che ‘andrà tutto bene’. Non siamo affatto migliori di prima, al contrario. In giro c’è una rabbia, un odio, una voglia di contrapposizione che annulla la possibilità di dialogare con chiunque abbia opinioni diverse. C’è solo il bianco e il nero, il giusto e lo sbagliato. Se ti azzardi a parlare di complessità ti saltano adosso. Mai mi sarei aspettato di vivere un’epoca come questa. Spesso ho la sensazione di trovarmi in un mondo alla rovescia. Ed è accaduto in modo rapidissimo.
Da ‘Tutti giù per terra’ al ‘facite ammuina’ pseudoborbonico dove chi sta sopra va sotto, chi è sotto va su… Intende questo per mondo alla rovescia?
Intendo dire, e non riesco a spiegarmi il perché, che adesso tutti i bacchettoni li trovi a sinistra mentre i più tolleranti sono collocati a destra. Se penso alla libertà degli anni Settanta e Ottanta, anche alla libertà di sfracellarsi, li rimpiango molto rispetto al conformismo e al moralismo attuali.
È una fase transitoria o un piano inclinato?
Ritengo con un certo sconforto che sia un piano fortemente inclinato.
Ha ragione Easton Ellis?
Ho parlato di recente con Jonathan Coe e anche lui mi raccontava che usa i social con la massima cautela, cercando di parlare solo di film, teatro, musica. Ma malgrado l’attenzione c’è sempre il rischio di scatenare un putiferio per una parola.
Questo clima da ‘psicoreato’ condiziona anche la narrativa?
Temo che in qualcuno scatti un’autocensura preventiva. E anche in Italia è comparsa la figura del sensitivity reader, che avvisa l’editore se c’è in un testo qualcosa che potrebbe offendere. Mi pare piuttosto inquietante.
Com’è lo stato della narrativa italiana?
Vivace. Rispetto al mio debutto nel ’94, per un esordiente è più facile pubblicare. Il problema è far durare un libro. Le novità sono troppe, gli editori non possono seguirle più di un mese, gli uffici stampa faticano e i librai devono far ruotare i titoli. Invece un libro per incontrare i suoi lettori a volte ha bisogno di tempo. La velocità non fa bene a nessuno.
Ricette?
Una riduzione dei titoli, ma è difficile disinnescare il meccanismo. Una cosa positiva avvenuta nel lockdown è che gli editori hanno venduto di più il catalogo.
Lei cura per il Salone del libro di Torino la sezione dedicata ai classici. Quale consiglierebbe adesso?
Dostoevskij. Finirò nella lista dei cattivi?
Vale ancora la tripartizione arbasiniana che fece sua, di brillante promessa, solito stronzo e venerato maestro?
Vale sempre. Poiché non ho vinto lo Strega resto nella fase ‘solito stronzo’. Nella vita di uno scrittore è quella che dura di più.
Nel suo ultimo libro ‘Berlino è casa’ racconta nuovamente una città, come aveva fatto con Torino. Perché questa voglia?
Sono stato a Berlino moltissime volte anche per lunghi soggiorni. Ci convivono fantasmi e futuro, camminando attraversi un grande volume di storia del Novecento però vedi tante mamme che spingono i passeggini. Le città sono enormi contenitori di storie che devi avere la pazienza di ascoltare. Sarà perché ho vissuto l’infanzia in un paesino di 900 anime, penso alle città come a una scoperta perenne. Quando mi proposero di raccontare Torino cominciai a guardarla con altri occhi, perché non davo più per scontate cose cui ero abituato.
Quale lettura suggerisce a chi comincia a scrivere?
Un romanzo difficile ma ineguagliabile è ‘Berliner Alexanderplatz’ di Alfred Döblin: è il ritratto di una città vivacissima alla fine degli anni Venti, e ha per protagonista un uomo appena uscito di prigione che viaggia su un tram, con un continuo cambiamento di punti di vista e prospettive, dove le voci si alternano e si sovrappongono. Straordinario.
Quanta fatica costa la scrittura?
A me fa risparmiare i soldi dello psicanalista. Quando uscì il mio primo libro ero convinto di aver detto tutto. Dopo ho capito che il problema è opposto: se avrò il tempo di raccontare tutto.
È stato scritto il grande romanzo italiano?
Ci sono stati tentativi notevoli. Scurati con ‘M’ è andato in quella direzione. Forse ci vorrà un romanzo capace di raccontare questi anni così surreali. Ma vanno metabolizzati.
Qual è la surrealtà che più la colpisce?
La naturalezza con cui i giornali hanno messo in conto la possibilità di un conflitto nucleare. Come se non s’aspettasse altro. Cresciuto col ‘dottor Stranamore’, mi ha impressionato quanto quel film possa echeggiare nel presente.