La recensione
Le briciole di verità (e arguzia) di Vjazemskij
Adelphi pubblica il taccuino del diplomatico russo che per Iosif Brodsky era paragonabile a Chamfort e a La Rochefoucauld.
Il nome di Pëtr Andreevič Vjazemskij ha vissuto a lungo nelle soglie dei testi. Ad esempio in esergo al primo capitolo dell’Eugenij Onegin di Puškin; in una chiosa di Jurij Lotman, che lo definisce «uno dei più intelligenti uomini dell’epoca»; o ancora in una nota de L’arte della fuga di Angelo Maria Ripellino, da dove si apprende che «fu uomo di stato, diplomatico, giornalista, critico e poeta».
Nell’envoi posto in apertura alla raccolta poetica Sumerki (1842) Baratynskij l’aveva appellato «stella d’una dispersa Pleiade», volendone sottolineare l’appartenenza ad una stagione poetica ormai tramontata, quella raccolta attorno al gruppo dell’Arzamas, «società di giovani» – scrisse il poliedrico figlioccio di Caterina II, Sergej Semënovič Uvarov – «legati fra loro da un comune sentimento di amore per la propria lingua madre, per la letteratura, la storia».
Vjazemskij vi partecipò, aderendo, non inserendosi. Per sua stessa ammissione, egli rimase, agli occhi dei suoi contemporanei, un damerino, celebre per «i gilet dai colori vivaci» e le innumerevoli avventure mondane. Al contrario i suoi versi passarono pressoché inosservati. Puškin, che gli fu sempre amico e sodale, paragonò la sua poesia al tridente di Nettuno: corrusca e ferrigna, essa appariva intrisa d’un sentimento schiettamente post-illuminista. Ma sebbene un certo cerebralismo potesse rendere poco armoniose le sue liriche, non di rado un’inattesa nota sardonica e sarcastica le attraversava, rendendole accattivanti. Così accade leggendo il “Dio Russo”, lungo componimento, dapprima vergato sul verso d’una lettera indirizzata allo storico Aleksandr Turgenev, e quindi tradotto in tedesco da Herzen che ne fecce omaggio a Karl Marx, certo che ne avrebbe apprezzato la ferocia verso la nobiltà decaduta e le ingerenze dei «raminghi forestieri» nelle sfere della burocrazia zarista. Eppure Vjazemskij non ebbe mai simpatie rivoluzionarie. In sintonia con Nikolaj Karamzin di cui fu pupillo, all’indomani dei moti decabristi, egli sembrò piuttosto guardare in direzione di un’ideologia nazionale, fondata su un deciso impegno dello Stato per la cultura e l’istruzione della società. Di qui il suo contributo, nelle vesti di viceministro dell’Istruzione durante il regno di Alessandro II, per un rinnovamento profondo dell’istituto della censura. Fu, questo ufficio, a riscattarlo dall’ingiusta accusa d’essere un giacobino e a smentire quanti lo ritenessero un «cortigiano leccapiedi» Lo ricoprì, tuttavia, solo pochi mesi. A sessantasei anni rassegnò le dimissioni, preferendo continuare «a combattere la censura come scrittore».
E scrittore Vjazemskij lo fu sempre: per più di sessant’anni egli tenne un taccuino al quale consegnò aneddoti, aforismi, ritratti di figure politiche, pettegolezzi, osservazioni letterarie. Iosif Brodsky ha osservato come qui Vjazemskij riuscisse ad esprimersi con una arguzia tale da renderlo paragonabile a Chamfort e a La Rochefoucauld. Soprattutto, in queste «briciole della vita» pubblicate oggi da Adelphi (Pëtr Andreevič Vjazemskij, Briciole della vita, a c. di Serena Vitale, Adelphi, Milano 2022, pp. 205, euro 14) Vjazemskij sembra unire nella sua persona la vocazione alla perdita di sé, propria del Rudin di Ivan Turgenev, al malinconico disincanto del Pazzo gogoliano, nella cui gestazione – lo ricorda Serena Vitale nella sua rutilante introduzione all’antologia dei Zapisnye knižki da lei curata per Adelphi – non è peraltro da escludere che Vjazemskij abbia una parte.
«Datemi una troica di cavalli veloci come il turbine! Prendi posto, mio cocchiere, tintinna, mio sonaglio, spiccate la corsa, cavalli, e portatemi via da questo mondo! Più lontano, più lontano, che non si veda più nulla, nulla» – gridava il folle Popriščin nel racconto di Gogol’; ma del suo delirio già era stato vittima il principe Golicyn – ricorda Vjazemskij – quando, esiliato «nelle sue terre», egli s’era trovato a girare mezza Russia, per cercarle, senza riuscire a trovarle. Dappertutto, dovunque si guardasse, si stendeva una pianura triste, infinita e marroncina…d’improvviso si vide passare, in divisa da ussaro, al gran galoppo su un cavallo berbero, uno di quegli uomini in cui finiva un mondo. Forse era il duca di Lauzun; forse era lo stesso kniaz’ Vjazemskij.
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