Selfie da romanzi rosa
L'esordio di Natasha Brown inganna dalla bio in copertina. Ceci scambiati per caviale
Aveva detto “niente autofiction”. Ci abbiamo creduto e abbiamo fatto male. Il suo Anatomia di un fine settimana mente spudoratamente
"È un libro che si interroga sulla narrativa e sul linguaggio, non ho messo niente di me”. La categoria merceologica scelta da Natasha Brown per il suo “Anatomia di un fine settimana” è per metà agghiacciante e contraddittoria: le interrogazioni sul linguaggio, ne abbiamo fin troppa esperienza, ammazzano la narrativa. Il “non ho messo niente di me” lascerebbe un filo di speranza, in questa landa dominata dall’autofiction. Purtroppo è una gigantesca bugia. Smentita, prima di leggere una sola pagina, dalla disputa che ha opposto la scrittrice alle edizioni Astoria, per via del risvolto biografico. In senso stretto: il risvolto dove solitamente viene stampata qualche riga su chi scrive, mentre la bandella a fronte ospita il sunto della trama, eventualmente qualche lusinghiero giudizio (qui occupano la quarta di copertina). C’era scritto “britannica di seconda generazione”. Parole da cancellare, magari con una pecetta: il libro era già stato stampato, la copertina era già stata bocciata una volta.
Ora mostra una sedia, in tinta con la tappezzeria a righe verdi. A prova di qualsiasi critica. Nessuno avrebbe letto “Anatomia di un fine settimana” – né lo avrebbe celebrato al punto da scomodare Virginia Woolf e “La signora Dalloway” – se la scrittrice non fosse nata in Gran Bretagna da genitori immigrati. E se non avesse fatto la sua brava scalata sociale studiando matematica a Cambridge e lavorando nella finanza. Prima di prendere un anno sabbatico e mettere mano all’operetta (120 pagine in traduzione, dall’inglese i libri si allungano sempre un po’).
Protagonista: una ragazza “dai capelli selvaggi, la pelle esotica, la camicetta che contiene i seni a stento”. Lavora in una banca d’affari, seduta su una sedia da 2.000 dollari. Beve Pimm’s da barattoli di vetro (follia modaiola, a imitazione dei poveri irlandesi che con il tè e poco altro dovevano campare, le tazze erano un lusso) nella “bellezza dolorosa” di Canary Wharf. Più avanti sapremo che le sue gambe “splendevano brune al sole della sera”. Selfie lusinghieri che ormai non si leggono più neppure nei romanzi rosa. Dove l’eroina si metteva davanti allo specchio acciocché il narratore (pardon, bisogna dire “la narratrice?”) potesse descrivere “i lunghi capelli fulvi, la bocca ben disegnata” e tutto quanto serviva perché la lettrici pensassero “mi somiglia proprio”.
“Anatomia di un fine settimana” è il tipo di romanzo in cui l’amica telefona alla protagonista dalla boutique Hermès, in lacrime perché “tutto è troppo bello”. A esser buoni potrebbe essere un esempio di sindrome di Stendhal, la vertigine procurata dalla bellezza. Più realisticamente va visto come un momento “Pretty Woman” nelle boutique di Beverly Hills. Chi racconta però non ha bisogno di carte di credito altrui: la banca era l’unica via per la scalata sociale, e lei l’ha avuta. Dovrebbe essere passato il momento dei rancori. Ma sullo sfondo c’è una malattia che potrebbe essere seria. E un fine settimana da passare in campagna con i genitori upper class del fidanzato.
Non siamo noi a sfoggiare cinismo: le due cose suscitano nella protagonista del libro, più una raccolta di frammenti, gli stessi patemi. Descritti con atroci giravolte pseudo-artistiche: “Un numero di binario sboccia luccicante e confuso da una manciata di puntini arancioni”. Una pillola mandata giù con un sorso d’acqua occupa dieci righe, quando l’unica informazione da trasmettere al lettore era “antidepressivo”. La letteratura è bella perché è varia, ma qui siamo tra i ceci scambiati per caviale. La protagonista vanta un bel conto in banca, un fidanzato, una carriera – adesso anche letteraria, se parliamo di Natasha Brown scrittrice. Lasciano a desiderare i colleghi e i capi, questo sì: “E’ come se ogni mattina una mediocrità nuova scivolasse fuori dall’oceano, s’insinuasse viscida tra rocce coperte da muschio e sabbia…” (continua per qualche riga). Un blob, insomma. Qua e là, profonde scoperte filosofiche: “Le parole false danno la sensazione di essere vere”.