Brutta e fedele o bella e infedele? Quanti dilemmi sulla traduzione
Ogni testo trasposto crea diversi effetti. Utili lezioni, da Antoine Berman a Franco Fortini
Quando, sui giornali o in televisione, qualcuno confessa “ho letto tutto Proust”, oppure “non sono mai riuscito a finire Proust” – entrambe per qualche motivo sono esternazioni di vanto – non posso fare a meno di chiedermi: sì, ma in francese? E se tradotto, in quale traduzione? In quella multi-autoriale di Einaudi o in quella dei Meridiani del poeta Raboni? E’ successo con Vasco Rossi (ha detto che la Recherche l’ha salvato in un brutto periodo). Queste domande non nascono dallo snobismo, ma da vera curiosità, perché ogni testo trasposto crea diversi effetti. Sappiamo bene che quando si traduce si perde qualcosa, inutile ripeterlo – “traduttori traditori”, si dice –, e ogni diversa resa ha i suoi pregi e i suoi difetti. Ci si chiede: meglio bella e infedele o brutta e fedele? A volte sceglierne una o l’altra è solo questione di fortuna, o marketing editoriale. Le difformità tra le diverse versioni potrebbero apparire superficiali, di “gusto”. Però, non solo il gusto non è mai superficiale, ma le scelte autoriali nei trasbordi linguistici ricadono “simultaneamente nell’etica, nella poesia e nel pensiero”.
Lo spiega bene Antoine Berman nei suoi seminari del ’48 che Quodlibet riporta in Italia nel volume La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, a cura di Gino Giometti. Berman analizza i vizi della traduzione, “attività umana considerata al contempo indispensabile e ‘colpevole’”, categorizzandone diverse tipologie e notando come per millenni la più diffusa sia stata la traduzione “etnocentrica, che riconduce tutto a norme e valori del traduttore”, e che “molti considerano insuperabile”. Una forma di imperialismo, che punta principalmente alla comprensione di un testo – “ogni traduzione è in se stessa un’interpretazione”, diceva Heidegger. E’ davvero possibile non mettere qualcosa di noi, della nostra storia, lavorando su un’opera di un’altra nazione, di un altro tempo, per renderla leggibile a chi condivide la nostra lingua? Secondo Berman si può provare a sfuggire a questo “sistema di deformazione”, e lo mostra disaminando Hölderlin, Chateaubriand e l’Eneide di Klossowski.
La questione della trasposizione si fa ancora più dura e avvincente quando si tratta di versi, di ritmo, di poesia. Per capirlo a fondo bisogna scomodare Franco Fortini e le sue “Lezioni sulla traduzione”, fino ad ora inedite, raccolte (sempre da Quodlibet) a partire dai manoscritti preparati nell’89 per un convegno. Qui si entra nel dettaglio, cercando le contraddizioni tra “traduzioni di servizio” e “creative”, e arrivando anche a quelle “immaginarie”, per fare poi un preciso quadro storico su come è stata tradotta la poesia straniera e classica in Italia. “Il punto d’onore del traduttore è molto spesso quello di raccontare se e come ‘ce l’ha fatta’”. Necessario ricordare che tra i mille volti di Fortini c’è anche quello di traduttore, tra cui di Albertine scomparsa, uno dei proustiani volumi Einaudi, (chissà che Vasco Rossi non abbia scelto proprio questa).
Leggere Berman e Fortini mostra la piacevole complessità di questa procedura letteraria, di questo tradimento e di questo slancio fondamentale per diffondere romanzi, saggi, poemi. Vero metodo di propagazione della cultura, con tutte le sue necessarie imperfezioni. Un peccato che i dibattiti recenti sulla traduzione – ad esempio il caso Gorman – si siano concentrati su identità di genere, di razza e simili, quando i dilemmi potrebbero far nascere stimolanti confronti su come rendere un testo in un’altra lingua. Non chi, appunto, ma come! Sembra assurdo doverlo dire, quasi a dimenticarsi che tanto l’originale non si potrà mai afferrare davvero. Come diceva, esagerando, Nabokov: “Traduzione? Su un piatto la testa pallida e contratta di un poeta, grido di pappagallo, stridio di scimmia, profanazione dei morti”.