Rinascita
Ma quale tramonto, la vera storia dell'occidente inizia adesso. Un libro
Aldo Schiavone nel suo "L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria" guarda con entusiasmo al mondo nuovo che sta nascendo attraverso gli enormi traguardi raggiunti dal sistema democratico liberale e capitalista
Se Faust è davvero il più moderno degli uomini moderni, così presente ancora nelle nostre coscienze come esempio assoluto dell’uomo che tutto vuole e tutto desidera a costo di tutto giocarsi, e di autodistruggersi, l’intuizione del Mulino di intitolare una nuova collana “faustiana” appare sfidante in un tempo che cede spesso alle sfinenti seduzioni da tramonto. Faust è il più moderno degli uomini moderni per la sua inquietudine inarginabile, ovvero per il suo streben sulla cui inesauribile forza è pronto a scommettere l’anima. Ma lo è soprattutto perché individua il principio di tutte le cose, il logos giovanneo, nell’azione, ossia nella volontà che si fa determinazione di trasformazione, guardando al mondo non più come a ciò che è dato una volta e per sempre ma come materia da plasmare così da farne emergere una “seconda natura” creata dall’uomo e da lui dominata. Ossia è l’uomo che rifà il mondo facendosi Dio (rischiando, nel percorso, di rendere l’anima al diavolo).
Il libro che inaugura questa collana è L’Occidente e la nascita di una civiltà planetaria di Aldo Schiavone. L’autore guarda con entusiasmo al mondo nuovo che sta nascendo attraverso gli enormi traguardi raggiunti dal sistema democratico liberale e capitalista vedendo il suo irraggiarsi sull’intero pianeta come una sorta di destino inevitabile inscritto nel modo stesso dell’uomo di conoscersi e di stare nel mondo. Dalla modernità emersa dalla cultura occidentale, un primato dell’occidente che Schiavone rivendica storicamente contro ogni forma di cancel culture, emerge una civiltà planetaria e quindi un’epoca nuova. Tutto il contrario della fine della storia, o di un’epoca di tramonto. Anzi, vi è la convinzione che la vera storia cominci ora, in quella che Leo Strauss definiva la prima epoca interamente atea della storia dell’umanità. Un’epoca inquietante certo, ma in cui l’intera possibilità della definizione del vero e del bene è nelle mani dell’uomo, della sua azione e, ovviamente, della sua tecnica in cui si supera per sempre la distinzione ormai polverosa tra naturale e artificiale: noi saremo padroni delle nostre condizioni materiali di esistenza, saremo quello che vorremo essere.
In questa prospettiva, in cui i flussi tecno-finanziari fanno girare il mondo, liberandolo e democratizzandolo, rendendo sempre più individui capaci di determinarsi, rifacendo sempre più efficiente l’ambiente umano attraverso ondate continue di distruzione creatrice, in questa tempesta, che continuamente genera squilibri, momenti negativi, così da creare sintesi di volta in volta superiori, ci si aspetterebbe che l’unico modo per lasciare che questi spiriti animali proseguano nel loro corso liberatorio sia quello di lasciarli sempre più liberi di determinarsi. Ovviamente per Schiavone non è così. La sua lucida analisi storica e contemporanea finisce per cozzare contro proposte augurali che sono del tutto in contraddizione con la sua analisi.
Le problematiche che coglie, nell’inverarsi di questa civiltà planetaria, sono le solite note: diseguaglianze, crisi climatica, sovranità democratica, identità sessuali, ecc. Sebbene riconosca in maniera chiara come “dopo il marxismo non esiste più un’interpretazione della modernità che sappia proporne una versione diversa, senza tuttavia mettere in discussione aspetti dai quali sarebbe impossibile tornare indietro”, le proposte di Schiavone sembrano tendere verso una forma di neosocialismo ultraegalitarista che stride in modo inconciliabile con ciò che ha generato le condizioni del benessere e della progressiva liberazione che egli stesso descrive a tratti con toni esaltanti.
Il neosocialismo di Schiavone passa da generiche aspirazioni keynesiane in un mondo in cui riconosce la fragilità degli stati; da indefinite aspirazioni al superamento del capitale considerato modello storicamente determinato di organizzazione economica; ma, soprattutto, da un’eguaglianza radicale pensata come soggettività di specie, impersonalità de-individualizzata ossia individuo ridotto a “la particella elementare di un tutto, primario e – per alcuni aspetti – indivisibile”. Un’idea di eguaglianza come inclusione totale, come identificazione senza negazione. Ma tutto ciò non è per nulla distante, nella sostanza teoretica, da quell’essere generico sociale che per Marx era l’uomo nuovo dietro il sol dell’avvenire, l’uomo comunista che si identifica con la comunità perdendosi interamente come individuo e riconquistando un’aspirata unità e totalità dell’umano (non come società senza classi, in questo caso, ma come specie).
Le contraddizioni, però, non sono sempre conciliabili nel concetto. Pensare di tenere insieme, come tenta Schiavone, il riconoscimento del successo senza precedenti del modello che ha portato alla possibilità della civiltà planetaria (mai così libera e mai così ricca proprio in virtù del sistema che la muove) e questa forma di eguaglianza, appare impossibile. E questo perché la libera azione umana, ossia il motore del mondo e il creatore di questa “nuova civiltà”, non tollera l’eguaglianza fusionale. O quest’ultima, o l’azione. Non c’è alternativa, una uccide l’altra. L’azione è, infatti, per sua stessa natura divisiva, distingue e genera, seleziona e scarta. E i suoi effetti giacciono soprattutto nelle inconoscibili conseguenze inintenzionali, tanto più diffuse e potenti quanto più il mondo è complesso e interconnesso. È un tempo liminale questo, in cui, anche e soprattutto nel pensiero, non si possono fare le cose a metà.
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