Se Dorothy va alla guerra
La Thompson e gli altri. I giornalisti coraggiosi che spiegarono all’America le ragioni per intervenire contro Hitler
Agli americani, di quel che succedeva in Europa non poteva importargliene di meno. Che si arrangiassero a cavarsela da soli con le loro guerre, la loro politica incomprensibile, i loro aspiranti dittatori. Erano gli anni Trenta. Il presidente era Franklin Delano Roosevelt. Gli Stati Uniti erano tenuti alla neutralità, niente meno che per legge. Altro che difendere la democrazia degli altri! La parola d’ordine era: Americans First!. Una pattuglia di corrispondenti americani, inviati da giornali e radio in concorrenza tra di loro, spesso con orientamento editoriale, linea politica diversi, anzi contrapposti, spesso non in linea coi propri rispettivi editori, gli fece cambiare idea.
Nel 1939, quando Hitler prese Parigi e Londra veniva bombardata, solo un americano su sei intervistato dalla Gallup era favorevole a mandare truppe in Europa. Roosevelt aveva difficoltà a mandare armi e rifornimenti all’Inghilterra. Aveva le mani legate dalla Neutrality Law. Le liti anche tra i suoi in Congresso erano da far impallidire le beghe tra Conte e Di Maio. Charles Lindbergh, il popolarissimo trasvolatore atlantico, ricevuto a braccia aperte (e forse anche finanziato) dai nazisti, conduceva una violentissima campagna sulle onde radio chiedendo che gli Stati Uniti si tenessero fuori dalla “follia” della guerra in Europa, “dall’avidità, dalle paure e dagli intrighi delle Nazioni europee”. Insisteva che la guerra, spacciata come “guerra per la democrazia”, era invece “una guerra sugli equilibri di potere”. Nessuno osava toccare Lindbergh. Molti erano convinti che sarebbe stato il prossimo presidente degli Stati Uniti. Una giornalista osò sfidarlo. Chiese conto dei suoi soggiorni a Berlino, delle medaglie e dell’attenzione ricevute da Hitler, delle sue “inclinazioni verso i fascisti”, delle sue idee razziste. Si chiamava Dorothy Thompson.
Quando Hitler prese Parigi e Londra veniva bombardata, solo un americano su sei era favorevole a mandare truppe in Europa
Le costò un odio implacabile. Ancora nel 1941 era in corso una campagna furibonda contro il Lend-Lease, la legge sugli “affitti e prestiti” che consentiva a Roosevelt di inviare armi all’Inghilterra (su cui è ora praticamente ricalcata quella che consente a Biden di inviare armi in Ucraina). Ci fu persino una “Crociata delle Madri” contro quella legge. Portavano cartelli con l’effigie delle Thompson. Con scritto su “Eleanor (la signora Roosevelt) e Dottie (Dorothy Thompson) vogliono farci spendere ancora per la guerra: un milione di vite dei nostri ragazzi”.
Quasi nessuno ricorda più i loro nomi. Con pochissime eccezioni: quelli che, come Hemingway, o Steinbeck, sarebbero diventati molto più famosi come romanzieri che come giornalisti. E, a dire il vero, non si ricordano più nemmeno le testate per cui scrivevano, molte sono da tempo scomparse. Eppure, ai loro tempi erano famosissimi, delle vere celebrità. Avevano centinaia di migliaia di lettori, milioni di ascoltatori sulle onde radio. Gli apparecchi radioriceventi, che erano appena tre milioni nel 1924, erano diventati 33 milioni nel 1936, ben 50 milioni nel 1940. Le grandi firme erano frequentatori abituali della Casa Bianca, il presidente li invitava a cena, li leggeva, gli chiedeva consiglio e li ascoltava. Quando fui inviato in Cina, oltre 40 anni fa, il mio sogno era che qualcuno in Italia al ritorno mi stesse a sentire, come Roosevelt stava a sentire Edgar Snow di ritorno da Pechino o da Mosca. Naturalmente è rimasto un sogno, anzi una pia illusione. Altra ragione di invidia: la loro sconfinata libertà. Nessuno, nemmeno i padroni dei loro giornali, certo non i politici, potevano imporgli o proibirgli di scrivere quel che si sentivano di scrivere. Era la stampa bellezza! Era un momento d’oro, forse irripetibile. Quei reporter avevano inaugurato uno stile nuovo: l’interpretative journalism. Che non si limitava alla bella prosa, al colore, al tocco di fiction, e nemmeno alle sole notizie, ma offriva al lettore strumenti per interpretare, districarsi nella complessità delle notizie, negli arcani della politica mondiale.
Dorothy Thompson, John Gunther, H. R. (Hubert Renfro) Knickerbocker, James Vincent Sheean, William Shirer, Rebecca West. Chi erano costoro? Di Gunther, grande inviato del Chicago Daily News, si è scritto che “percorse più miglia in viaggio, attraversò più confini, intervistò più uomini di stato, scrisse più libri, e ne vendette più copie di qualsiasi altro giornalista del suo tempo”. Knickerbocker era detto Red, “il Rosso”, non per le sue posizioni politiche ma per il colore dei suoi capelli. Dal 1923 al 1933 aveva fatto il corrispondente per il Public Ledger di Filadelfia. Aveva coperto l’Unione sovietica, riuscendo persino ad intervistare la mamma di Stalin (“Stalin uomo misterioso anche per sua mamma”, il titolo del New York Evening Post), e la Guerra civile in Spagna, finendo imprigionato e poi espulso dai franchisti. Era stato bandito dalle capitali fasciste d’Europa, per l’ostinazione con cui continuava a denunciare le derive “aggressive, misogine, antisemite e antidemocratiche”. William L. (Lawrence) Shirer era la voce della CBS (Columbia Broadcasting System) da Berlino. Vincent Sheean era l’inviato del New York Herald Tribune a Praga, Madrid, Londra, Parigi e Berlino, oltre che in India e in Persia. Le column della Dorothy Thompson, capo dell’ufficio di corrispondenza a Berlino del New York Herald Tribune, apparivano su ben 170 quotidiani; le sue trasmissioni per la NBC raggiungevano milioni di ascoltatori.
Sono solo i principali protagonisti di un libro di Deborah Cohen, Last Call at the Hotel Imperial. The Reporters who took on a World at War (Random House, 2022). Narra le imprese giornalistiche, e pure le donne, le armi e gli amori di un gruppo di reporter di razza, che si intrecciano nelle capitali, negli uffici e soprattutto nei grandi alberghi di un’Europa che appare inesorabilmente avviata a fascismi e dittature. Cohen le narra perdendosi in un eccesso di dettagli e aneddoti sulle loro vite private, i tradimenti, i litigi, tra di loro e tra loro e i rispettivi giornali, che rivela una lunga e faticosa frequentazione da parte dell’autrice dei loro diari, delle loro lettere e degli altri documenti conservati negli archivi che fanno spesso perdere il filo. Senza contare la pessima abitudine si chiamare i protagonisti col solo nome proprio, o addirittura col solo nomignolo, il che renderebbe pressoché impossibile orientarsi nella narrazione, non fosse per l’opportuna presenza iniziale di una “lista dei personaggi” e di un indice finale di nomi e argomenti. Incuriosito dall’argomento, ma un po’ frustrato dall’eccesso di pettegolezzi rispetto alla sostanza, ho cercato meglio e ho trovato più utile un lavoro precedente, del 2009, inedito ma disponibile in internet, di un’altra studiosa, la canadese Karen Dearlove: From Europe to the Nation: American Journalistic Perceptions on European International Relations, 1933-1941.
L’albergo del titolo del libro della Cohen è l’Imperial Hotel di Vienna, dove la crema del giornalismo internazionale si era ritrovata a coprire l’ultimo atto prima della nuova Guerra mondiale: l’arrivo di Hitler nella primavera del 1938 a proclamare l’Anschluss, l’unione forzata di Germania e Austria nel Reich nazista. Dalle eleganti finestre dell’Imperial pendevano enormi drappi rossi con la croce uncinata in un cerchio bianco. Hitler era stato accolto da selve di mani alzate, folle festanti. “Vienna, la solita vecchia puttana”, fu il commento dell’ungherese Marcel Fodor, inviato europeo del Manchester Guardian e di diversi giornali americani. Chissà se era questa l’accoglienza trionfale che Putin si aspettava dai “fratelli” ucraini che, a suo dire, l’avrebbero chiamato in aiuto. Di lì a poco ci sarebbe stata l’invasione della Cecoslovacchia, preludio dell’invasione della Polonia, entrambe giustificate con l’esigenza di tutelare i “fratelli” tedeschi perseguitati, massacrati (“genocidio” sarebbe venuto in uso solo dopo) da cechi e polacchi. Jimmy Sheean profetizzò che le persecuzioni a cui vennero subito sottoposti gli ebrei di Vienna – quelli che, a differenza di Sigmund Freud non erano riusciti a scappare per il rotto della cuffia – erano solo una “prova generale” del momento in cui “il regime nazista massacrerà tutti gli ebrei”, e “il resto della popolazione – terrorizzata, mezzo incredula, incerta – sarà ben felice di scordarsi di tutto nel giro di una settimana e dirà che si tratta di esagerazioni della stampa estera”. Telegrafò al suo giornale per dirgli che partiva per Praga invasa. Quelli gli risposero che “l’America non è più interessata alla Cecoslovacchia”.
L’Imperial Hotel di Vienna, dove la crema del giornalismo internazionale si era ritrovata a coprire l’ultimo atto prima della nuova guerra: l’Anschluss
Eppure non l’avevano sempre azzeccata. Dagli inizi degli anni Trenta tutti a cercare di intervistare l’astro nascente Adolf Hitler. Dorothy Thompson c’era riuscita per prima, nel 1931, subito dopo le elezioni politiche che avevano visto il tracollo dei partiti di centro e il successo di nazisti e comunisti. Il primo partito era ancora quello socialdemocratico, il partito di Hitler aveva una percentuale inferiore a quella che ebbe la Lega alle ultime politiche italiane. Dorothy non era rimasta per nulla impressionata. Nell’articolo che fu intitolato “Ho visto Hitler!” lo descrisse come un “uomo piccolo piccolo”, insignificante, quasi timido. La colpì che lui l’avesse accolta e congedata con un baciamano. Arrivò addirittura a notare una certa “effeminatezza” nei suoi modi. L’insinuazione fece tanto infuriare il Führer che rifiutò di concedere altre interviste a giornalisti stranieri per un intero anno. Dorothy arrivò ad azzardare un profezia: che, se anche Hitler fosse riuscito ad andare al governo, avrebbe potuto farlo solo in coalizione con il Zentrum cattolico, dal quale avrebbe finito per essere sopraffatto. “Predico che Hitler sarà schiacciato tra due prelati, se mai va al potere”.
L’illusione di Dorothy Thompson dopo l’intervista a Hitler: “Se mai va al poter, sarà schiacciato tra due prelati, dal Zentrum cattolico”
I colleghi avrebbero irriso per anni questa sua “gaffe comica”. Knickerbocker avrebbe intervistato Hitler un paio di anni dopo, quando aveva preso ormai il 37 per cento dei voti. Anche lui ebbe un’impressione di mediocrità. Era stato ricevuto non in uniforme ma in completo scuro, camicia bianca e cravatta nera. “Mi è sembrato un giovane procuratore distrettuale all’inizio della carriera in una contea di seconda categoria in Texas”. Ma era giunto alla conclusione che il suo interlocutore era tutt’altro che da sottovalutare, un demagogo intelligente e pericoloso, pronto a tenersi il potere a ogni costo. Ci fu chi lo accusò di allarmismo: “Forse Mr. Knickerbocker è un po’ troppo ammaliato dal fascino di Hitler, è propenso al sensazionalismo”. “Knick” era in effetti affascinato, ma da un altro dittatore, che avrebbe conosciuto e intervistato ben quattro volte, nel 1932, due volte nel 1934, e ancora nel 1936. La prima volta era nell’ambito di un servizio di economia, sugli effetti della Depressione in Europa. La seconda Mussolini l’aveva accolto nel suo studio a Palazzo Venezia chiedendogli che ne pensasse di Hitler, e se questi aveva il sostegno dei tedeschi. Dice – non negli articoli pubblicati, ma nel suo diario – di avergli risposto che i tedeschi non avrebbero mai abbandonato Hitler. Al che Mussolini gli avrebbe risposto che lo stesso valeva per il sostegno al fascismo in Italia, incrollabile “a meno di una guerra persa”.
Per lo più i corrispondenti americani raccontavano onestamente quel che succedeva, compreso il terrorismo a danno degli ebrei. Ma non garbava ai loro interlocutori nelle redazioni. L’ordine di scuderia del New York Times era di evitare di criticare troppo Hitler e di non dare l’impressione di dare addosso ai nazisti. I proprietari del giornale, i Sulzberger, erano ebrei, e proprio per questo insistevano che non si desse l’impressione di parteggiare troppo per gli ebrei e di avercela con i loro persecutori. Avrebbe nuociuto alla loro immagine, e anche al loro portafoglio, avrebbe alienato una parte dei lettori, pensavano. Meglio affettare distacco e neutralità, in nome di una pretesa quanto pelosa “obiettività”. Il direttore del giornale di Chicago per cui scriveva John Gunther, il Midland Daily News, di proprietà di William Randolph Hearst (il mitico, ricchissimo e ultrareazionario Citizen Kane) gli scrisse: “Il giornale da due settimane è zeppo di articoli contro Hitler, è venuto il momento di scrivere di qualcos’altro”. Il rimprovero ai propri corrispondenti da Berlino era di “aver perso di vista che il giornale deve raccontare le cose in modo equilibrato, senza pretendere di dare consigli ai governi stranieri su come debbano agire”.
L’ordine di scuderia del New York Times era di evitare di dare troppo addosso ai nazisti. I proprietari del giornale, i Sulzberger, erano ebrei
Questi grandi inviati venivano tutti dall’America profonda. Erano dei provinciali. Erano stati inviati in Europa come oggi si viene inviati in Ucraina. Non conoscevano molto del mondo. Ma conoscevano benissimo il pubblico di lettori a cui si rivolgevano. Riuscirono a convincere il pubblico americano che Hitler e soci erano pericolosi anche per un’America tutta presa dal proprio “eccezionalismo” e dal proprio magnifico isolamento. Li convinsero a mandare armi all’Inghilterra aggredita. Più difficile era convincerli a prendere anche parte alla guerra, e poi aiutare quella che gli era stata presentata fino al momento prima come una dittatura gemella di quella di Hitler in Germania: la Russia di Stalin. Ma i fatti sono più ostinati delle opinioni. A questo ci avrebbe pensato un aiuto insperato: l’attacco giapponese a Pearl Harbour.