(foto Ansa)

Al Festival dei due mondi di Spoleto i ballerini dell'Ecole des Sables interpretano Bausch

Fabiana Giacomotti

Un assaggio di cosa potrebbe succedere nel mondo ideale della conoscenza reciproca tra culture diverse lo abbiamo avuto con il weekend d'apertura della kermesse umbra

Se qualcosa potrà mai liberarci dal senso di colpa e dagli arzigogoli lessicali a cui facciamo ricorso, goffamente, quando cerchiamo anche solo di nominare la cultura africana, sarà la determinazione con cui gente come Germaine Acogny, papessa mondiale della danza contemporanea anzi “fusionale”, Leone d’Oro alla Biennale Danza del 2021, fondatrice di quel gioiello di intercultura africana che è l’Ecole des Sables a Toubab Dialaw, nel Senegal, parla del “rispetto della cultura dell’altro” sottolineando come “dovremmo essere orgogliosi delle nostre origini”.

Superare la sindrome del colonialista con l’aiuto dei colonizzati sarà al tempo stesso la sconfitta più cocente e la più grande vittoria dell’Occidente, e non ci sono dubbi che questo potrà avvenire solo attraverso espressioni culturali come la danza, il teatro o la poesia, visto che le ultime adozioni dell’Unione europea per incrementare la produzione africana di grano e derrate alimentari a fronte del blocco delle scorte di grano ferme nei porti ucraini e delle conseguenze delle sanzioni alla Russia con un piano di investimenti d’urgenza che ammonta a un miliardo e 500 milioni di dollari, sembrano fatte apposta per rinfocolare il sentimento comune nei riguardi dell’Africa “recipiente” e non “donatore”.

Un piccolo prodromo di quello che potrebbe succedere nel mondo ideale, anzi nella “foresta sacra contemporanea” della conoscenza reciproca prefigurata da madame Acogny è andata in scena per tutto il week end di apertura della nuova edizione di Festival dei Due Mondi di Spoleto al teatro Gian Carlo Menotti, grazie a un’interpretazione dei ballerini dell’Ecole des Sables del “Sacre du Printemps” nella coreografia di Pina Baush. E’ stata una rivelazione o, meglio, l’epifania di quello che intendeva Igor’ Stravinskij quando la compose (“quando stavo terminando la composizione dell’ ‘Uccello di fuoco’, ebbi la visione di un gruppo di saggi che sedeva in cerchio, guardando una fanciulla danzare fino alla morte. La sacrificavano per propiziarsi il dio della primavera”) e che si può ascoltare attraverso le sue parole in un fantastico documentario biografico caricato da poco sulla piattaforma Netflix: nessuna concessione al “Port de Bras” della tradizione occidentale, zero controllo dell’arco mediale del piede che anche nella “scuola Bausch” è comunque evidente, una forza di espressione di una potenza sconvolgente.

 

Lo scontro fra l’uomo e la donna sacrificale, che diventa qui pura energia, tenuta sotto controllo, la forza dei movimenti tratta e ricondotta alla Terra, l’assolo finale della prescelta che atterrisce e commuove per l’assoluta, dolorosa naturalezza. Non è un caso che Solomon Bausch, figlio di Pina, abbia concesso finora a pochissimi di interpretarne la coreografia al di fuori del Tanztheater Wuppertal dove è nata quasi mezzo secolo fa, e in qualche momento del lungo percorso di avvicinamento degli studenti dell’Ecole (che non è una compagnia, ma un centro di formazione). Ma non è un caso nemmeno che critici e commentatori, a partire da Sergio Trombetta, che firma il programma di sala, ritengano necessario interrogarsi sull’utilità di “questo progetto, se non a subire l’imposizione di modelli europei”, cercando poi meticolosamente modelli di “appropriazione” all’opposto, nella danza di Misty Copeland. Ma è utile, questa ricerca ossessiva del “mio” e del “tuo”, che è poi un’altra forma di separazione e per di più importata da un modello culturale dubbio come quello americano quando è evidente che il “nostro” sia infinitamente più interessante?

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