L'omaggio a Pasolini di "Vivo e Coscienza" è un balletto contro il Metaverso
La società sta rimuovendo il gesto dalla vita di tutti i giorni: il balletto-cantata diretto da Luca Veggetti invece segue l'insegnamento del poeta. Se integriamo il linguaggio verbale con il gesto, questo assume un valore semantico potenziato dalla percezione dei sensi
Questo non è un articolo su Pier Paolo Pasolini. Forse un po’ sì, ma è un danno collaterale derivato dal coraggioso recupero, da parte del coreografo Luca Veggetti, del balletto-cantata "Vivo e Coscienza". Questo incompiuto pezzo teatrale, in origine commissionato al poeta dalla Biennale di Venezia nel 1963, quest’anno è stato affidato da Veggetti agli allievi danzatori della Civica Scuola Paolo Grassi, che hanno interpretato le due allegorie nei quattro quadri storici previsti dall’autore: seicento, rivoluzione francese, fascismo e resistenza. Più pragmaticamente, tutte le volte che Vivo e Coscienza danzano, fanno da preludio a una qualche rivolta, e cioè a una tragica morte di liberazione: inscenando la discordia, generano anche la possibilità di sintesi.
A distanza di giorni, sono rimasta inchiodata a questa endiadi disgiuntiva, mentre la memoria tattile rievocava i giovani danzatori spremersi nel caldo impietoso per un’adesione totalizzante al testo, il loro fiato corto e il respiro mozzato degli spettatori. Insomma, questo non è un articolo su Pasolini, ma è proprio a lui che avrei augurato di vivere, patire persino, quel turbinio sensoriale dettato dall’afa e dall’ansietà, reso possibile dalla forma espressiva mista che è il teatro: mista e – con angosciante sorpresa – non replicabile on demand. Gli avrei detto proprio così: “Ho visto i tuoi Vivo e Coscienza incarnati per davvero e ho capito che avevi ragione quando nel 'Sogno del Centauro' dicevi che il fonema senza il gesto è un semantema diverso”. E cioè che se integriamo con il gesto il linguaggio verbale, questo assume un valore semantico potenziato dalla percezione dei sensi. Per questo il repêchage mi è sembrato di un’attualità terrificante: stiamo rimuovendo il gesto fisico dalla nostra vita quotidiana.
Un motto di spirito comune fra i miei coetanei riguarda l’auto-collocazione generazionale: io non sono né Z né millenial, io mi sento fedelmente novecentesca perché questo è il secolo lungo, e così via; alcuni di noi si sentono persino speciali abbastanza da rientrare nella nicchia di quelli che la disruption digitale l’hanno vista irrompere ma hanno imparato in fretta a destreggiarvisi.
Per intenderci, di svolte epocali della storia se ne possono rintracciare tante, ma in un’intervista impossibile chiederei a Pasolini di aggiornare 'Vivo e Coscienza' al tempo dell’oggi, che è il tempo (quasi) del Metaverso. E in questa fantasticheria in cui faccio le domande e mi do le risposte, realizzo che 'Vivo e Coscienza' nel Metaverso non avrebbero un luogo in cui giocare a sfuggirsi e riprendersi.
Dopo l’avvento degli smartphone, sfumano le mie ipotesi per un quinto quadro che nella realtà dematerializzata si rivela ontologicamente impossibile. In rete, l’umana fisicità non può colmare la sua afasia con la parola raziocinante, e d’altro canto il pensiero immateriale perde il contatto con l’essenza sensibile del corpo.
Pensate a quei fraintendimenti (irrisolti) causati dal mancato aggiornamento di Whatsapp, che vi ha impedito di vedere l’ultima faccina lacrimevole ad accompagnare una frase giudicata sentenziosa. Al contrario, 'Vivo e Coscienza' stringono un’alleanza dei corpi che si nutre di prossemica. Quando la gioventù vitale di Vivo condanna il mondo, Coscienza rientra dal suo esilio per facilitarne la riconciliazione: come tra passione e ideologia, i due sublimano continuamente la tensione sensuale in moralità e l’etica in irruzione di ferina gioia. Ma questa tensione, che accoglie dentro di sé il potenziale scioglimento, non è e non sarà mai possibile con l’intermediazione virtuale. Nel Metaverso, in cui la “corporea passeggera assenza” è invece condizione permanente, Vivo e Coscienza sono apolidi. Non è lì che possono reiterare la loro danza fatta di baci mancati, e far riaffiorare la coscienza della vita.