Letteratura di oggi
Dialoghi improbabili in una lingua che non esiste
Gli scrittori sono sempre meno capaci di far parlare i loro personaggi e nei romanzi contemporanei si costruiscono assurdi arazzi di una lingua che non esiste. Ma ci sono anche i bravissimi: da Jasmina Reza a Peter Cameron
"A me Philip Roth non mi incanta. I suoi personaggi, persino amanti ventennali e coniugi centenari, parlano come libri stampati e nessuno sembra accorgersene, e Roth men che meno”.
Aldo Busi su Philip Roth. Aldo Busi che in un’intervista di dieci anni fa disse “io vengo da una lingua sofferta, che non trasmette sentimenti”, magnifica autobiografia in due righe e lapide eterna su tutta la comunicatività di una letteratura in attacco acuto di cordialità, concepita in una camera dell’eco di altre camere dell’eco. Aldo Busi che su Philip Roth dice la verità: gli scrittori non hanno necessariamente orecchio, compresi quelli che hanno tutto il resto. E per scrivere dialoghi sensati ci vuole orecchio ma non basta: ci vuole che tutto danzi, che non significa metter tutù e virgolette alle frasi, ma che tutto deve muoversi come si muove, avere il suono che potrebbe avere, essere vivificato da un soffio di naturalezza senza travasare la realtà in scala uno a uno ma sapendone simulare – riorganizzandola – il naturale suo procedere spezzato e frammentario, incoerente e mai rettilineo, imprevedibile e scorciato, pieno di sottotesto più che di testo. E di capire quando e come. Qualcuno di voi, nella vita reale, riesce a esporre un pensiero per un quarto d’ora filato, il corrispettivo di tre pagine filate su carta, senza interruzioni? Per fortuna no, ma in certi romanzi ce la fanno quasi tutti (ah, i personaggi che “espongono”, languida rimembranza dostoevskiana).
Nella maggior parte dei romanzi contemporanei incombe il dialogo improbabile. Il dialogo concepito per essere cruciale, che si scolpisce nell’aria e si intreccia ad altri dialoghi arguti e persuasivi fino a tessere, davanti ai tuoi occhi, l’assurdo arazzo di una lingua che non esiste e di un mondo che non c’è, inventario perfetto e tra virgolette di tutto ciò che nei nostri dialoghi quotidiani non entra ma, al contrario, esce, strozzato dalle inevitabili ambiguità espressive, censurato dallo scarso coraggio che abbiamo, represso dalla paura umanissima di dire la verità. Sulla pagina, mai. La pagina è il luogo degli eroi o delle poetesse, e tutto è fatale o decisivo. Lì trionfa la creatura profonda e traboccante di autopercezione. Lì sfolgora l’uomo podiomunito che, quando conversa, declama e conclama (e ancora lo frequentano tutti). Lì fervono non dialoghi, ma incroci di acutissimi monologhi. Lì, in ogni parola, scalpitano un’irruenza epocale e l’urgenza filosofica. Spesso prende quota una terrificante cooperazione veritativa, detta anche sindrome di Gambardella (Jep): memorabili climax a due in cui uno butta lì una poeticheria e l’altro gli risponde; poi tocca di nuovo al primo che, a quel punto, non esita a gettarsi nell’escalation lirica; infine ancora all’altro, che conclude con un aforisma pensato per l’Eternità (una partita di tennis tra Paulo Coelho e Jacques Prévert, un incubo).
In questi dialoghi fasulli, tutti dichiarano e nessuno recalcitra, tizio comincia e caio completa, uno mastica e l’altro digerisce, ma dov’è la necessità di un dialogo se i due che parlano (sempre indistinguibili) vanno proprio dove ci si aspetta che vadano? Insomma, pochissimi i dialoghi credibili, moltissimi quelli comici: dal dialogo tortuosamente didascalico (Houellebecq) al dialogo dritto sulle zampette posteriori tutto punti esclamativi (leggi male Céline, ecco i risultati), per non parlare della sindrome del “soggiunse ambiguo” o del “Mattia vuotò il sacco” – due punti, virgolette, e lo vuota.
Ma ci sono anche i bravissimi: da Jasmina Reza signora del sottotesto, a Shalom Auslander maestro di sintesi. Da Herman Koch (ne “La cena” non ne sbaglia uno) a Peter Cameron (“Anno bisestile” deve molto ai dialoghi). Da Richard Ford a Etgar Keret, da Mordecai Richler a Shirley Jackson, da Breat Easton Ellis a Martin Amis. Utile anche rivolgersi al teatro: Harold Pinter, Juan Mayorga, David Mamet. Tra le ultime uscite narrative, “Il santo” di V. S. Pritchett (Adelphi) è, in questo senso, il perfetto manuale.