Ai Rencontres d'Arles l'arte della fotografia tra sguardo critico e poesia
L’evento più importante nel mondo della fotografia, ci fa scoprire i lavori di Barbara Iweins. Tra le esposizioni personali, la più potente è probabilmente quella dello svizzero Lukas Hoffmann, “Evergreen”
Arles. Barbara Iweins, artista belga, ha fotografato e catalogato tutti gli oggetti che ha trovato a casa sua. Erano 12.795. Spiega: “Seguendo Kant, per il quale l’oggetto esiste ma viene riconosciuto solo quando il soggetto lo affronta e lo riconosce come tale, ho iniziato un confronto radicale con le cose che possiedo attraverso l’obiettivo fotografico”. Un esercizio rigoroso, dal metodo glaciale, in grado di trattare una materia che scotta. Siamo quello che possediamo? Non solo, ma anche; visto che tanti degli oggetti che ci circondano hanno una storia, magari minima, ma a suo modo significativa. Il progetto della Iweins, intitolato “Katalog”, ha dato vita a un libro (Delpire, 2022), un sito con il quale si può consultare il corpus di immagini secondo diversi criteri (stanza, colore, materiale, frequenza di utilizzo) e una mostra, in questi giorni visibile ai Rencontres d’Arles.
La mostra della Iweins non è certo tra gli highlight della manifestazione francese diretta da Christoph Wiesner, che si conferma l’evento più importante nel mondo della fotografia, ma è una delle scoperte più interessanti di questa edizione (fino al 25 settembre). Tra le mostre principali, e che speriamo di vedere presto anche in Italia, segnaliamo quella al Musèe Départemental Arles Antique, curata dal fotografo inglese Paul Graham, “But Still, It Turns”, arrivata dall’International Center of Photography di New York. Una collettiva che raccoglie i lavori di nove fotografi (tra cui il duo italiano Piergiorgio Casotti e Emanuele Brutti) che, negli ultimi anni, hanno lavorato sul territorio americano. Il meglio, secondo il curatore, del “documentario lirico”, che prova a superare la semplice descrizione del dato ambientale o sociale per aprire dei varchi, attraverso la poesia dell’immagine, dai quali traspaiano verità più profonde. Gregory Halpern, Kristine Potter, Vanessa Winship e Stanley Wolukau-Wanambwa sono i nomi più affermati, ai quali si aggiungono Curran Hatleberg, RaMell Ross e Richard Choi. Una mostra, quella di Graham, che è destinata a diventare un classico.
Tra le esposizioni personali, la più potente è probabilmente quella dello svizzero Lukas Hoffmann, “Evergreen”. Il fotografo propone sequenze di stampe in bianco e nero, di grande formato, che sono veri e propri polittici che riproducono tratti di mura sbrecciate o zone di vegetazione. Ciò che più impressiona è la qualità scultorea del lavoro, che è in grado di essere guardata tanto come fedele riproduzione quanto come composizione astratta. Accanto a questi polittici, Hoffmann espone una serie di immagini di persone ritratte per strada, utilizzando, a mano libera, una macchina fotografica di grande formato. Si tratta di una galleria di corpi e vestiti, ripresi da vicino. L’impressione è quella di essere immersi nella folla, un’esperienza di intimità e coinvolgimento. Un corpo a corpo all’epoca del distanziamento sociale forzato.
Vale la pena segnalare anche i due giovani vincitori del Louis Roederer Discovery Award. Da una parte l’americano Rahim Fortune, che si è aggiudicato il premio della giuria, con il progetto “I can’t stand to see you cry”. Un viaggio autobiografico, in bianco e nero, che inizia al capezzale del padre morente e continua, nonostante il peso del dolore, attraversando la pandemia e le tensioni seguite all’uccisione di George Floyd. Una storia di ferite e guarigioni. Lacrime e silenzio. Il premio del pubblico, invece, è andato alla tedesca Mika Sperling, con il lavoro intitolato “I Have Done Nothing Wrong”. Anche qui siamo alle prese con un tema autobiografico che riguarda, però, un passato segnato da un nonno violento, con il quale l’artista decide di fare i conti con gli strumenti dell’arte. Foto di famiglia dalle quali è stata ritagliata la figura del nonno. Una serie di immagini scattate alla propria figlia nel giardino della casa di famiglia dove si sono consumati i delitti. Sperling trova la lingua giusta per affrontare un tema indicibile.
Da non perdere, infine, è la mostra di Jacqueline Salmon al Musèe Rèattu: “The Blind Spot. Perizomas: Study and Variations”. Una lezione di storia dell’arte per immagini, che ripercorre l’evoluzione dell’iconografia del perizoma di Cristo. L’artista isola, con l’inquadratura, il particolare del tessuto che copre il corpo del Crocifisso in decine di opere di grandi maestri, sottraendo la qualità della pittura alla dittatura della narrazione. Un lavoro sistematico, che mostra la capacità della fotografia di esercitare uno sguardo critico, e insieme poetico, in grado di produrre nuova conoscenza.