La question
La testimonianza che disse molto sulla bestialità dell'animo umano
Il libro di Henri Alleg, che sfidò la censura francese, viene ripubblicato da Einaudi: ancora oggi non smette di sconvolgere per il realismo e l'attualità dell'antica e irriducibile questione del male
Einaudi ripubblica, a distanza di 64 anni, La Question di Henri Alleg (in italiano con il titolo di La tortura), una testimonianza che a suo tempo fece scalpore e che non può – letta oggi – smettere di sconvolgere per la sua dose di crudo realismo da un canto e dall’altro per l’inesausta presa di coscienza da parte di chi legge che c’è qualcosa di indelebilmente ferino nell’animo umano. E che la fiera è più feroce se s’ammanta di politica e di ideali.
Alleg, matematico francese, fu il direttore del quotidiano comunista “Alger républicain” finché, durante la guerra d’Algeria, nel 1957 quest’ultimo non fu messo al bando e i giornalisti costretti a darsi alla clandestinità. Solo che lui, come altri, venne trovato e portato dai parà nel “centro di triage e transito” (Ctt) di El Biar dove venne predisposto per lui un “piccolo interrogatorio”. “Vi basterà” gli venne detto all’atto del prelevamento, “vi assicuro che parlerete”. Ma Alleg non parlò: non dopo una giornata di elettroshock ovunque – dai genitali alla lingua –, non dopo una seconda a intensità di corrente massima, condita da tentativi di annegamento perpetrati con un tubo infilato a forza nella trachea e ustioni pressoché ovunque, e una terza in cui si passò ai “metodi scientifici”, ossia al cosiddetto siero della verità: il Penthotal in vena.
Alleg non parlò guadagnandosi – terribile a dirsi – la stima di quei giovani parà che parlavano “delle sedute di tortura come si fosse trattato di un match di cui aveva[no] un ricordo piacevole, e che veniva[no] a rallegrarsi con [lui], quasi foss[e] un campione ciclista”. I Ctt non erano “soltanto un luogo di tortura per gli algerini, ma una scuola di perversione per giovani francesi” scrive. Ed è un francese che fa sapere ai francesi e poi al mondo, sostanzialmente in presa diretta – è il 30 settembre 1957 quando “L’Humanité” pubblica la sua querela scritta nel carcere dov’è rinchiuso –, cosa “si consuma [lì] ‘in loro nome’”. Il quotidiano viene sequestrato interamente (non solo quattro copie, come specifica Caterina Roggero nella postfazione storica alla nuova edizione italiana) con l’accusa di attentato alla sicurezza dello Stato, ma un coraggioso piccolo editore, Jerôme Lindon, lo fa uscire il 12 febbraio 1958 per le Éditions de Minuit, una casa editrice nata in clandestinità durante il nazismo. Ventimila copie – la prima tiratura – sono esaurite immediatamente: i librai ne vendono da cinquanta a centocinquanta al giorno, Sartre ne scrive su “L’Express”, che viene immediatamente confiscato.
Così, mentre in Francia il 27 marzo il titolo era definitivamente requisito, in Gran Bretagna e in Italia usciva con il testo del filosofo francese come prefazione e da lì poi viaggia in mezzo mondo. Non era a quel punto solo una lotta alla verità, la denuncia di Alleg, ma una battaglia contro la censura: per la libertà nel senso più ampio. “Questi carnefici” scrive Sartre “prima di tutto, cosa sono? Dei sadici? Degli arcangeli irritati? Dei signori della guerra con i loro terrificanti capricci? […] Non intendo dire che gli europei di Algeri abbiano inventato la tortura, e nemmeno che abbiano incitato le autorità civili e militari a praticarla. […] Ma l’odio per l’uomo che vi si manifesta, è espressione del razzismo”. Ecco l’antica, irriducibile, questione del male e di come sia possibile, che ci torna in mente ogni volta che l’uomo muove contro l’uomo. Alleg inizia il suo racconto proprio da lì, dalla prigione sovraffollata dove si vive al ritmo dei condannati a morte in attesa di grazia o di esecuzione. “E’ dal loro braccio” scrive “che salgono ogni giorno i canti proibiti, i magnifici canti che nascono sempre dal cuore dei popoli in lotta per la loro libertà”. Già, la libertà.