Le case dei libri non sono di carta
Leggere nella casa di vetro. Una nuova biblioteca per la città
La BUC dell’Università di Trento è nata quasi per caso. E’ il modello “très grande bibliothèque” in una metropoli a portata di piedi o di bicicletta. Semitrasparente, bella per studiarci per plotoni di giovani
Qui una volta era tutta campagna. Invece adesso, arrivando da sud, da Verona col treno o con la macchina, la prima cosa che si vede è questa biblioteca nuova di zecca, grande ma non grandissima, semitrasparente, colorata, con plotoni di giovani che entrano ed escono dal mattino presto alla sera tardi, e sulla facciata in vetro la scritta BUC, Biblioteca Universitaria Centrale dell’Università di Trento.
Le istituzioni sono commoventi, diceva Pasolini, e tra tutte le istituzioni le più commoventi di tutte sono di sicuro le biblioteche. Prendiamo ad esempio un caso commoventissimo: me.
Io ho cominciato ad andare a scuola, prima elementare, nel 1977. Il welfare italiano scoppiava di salute, il sussidiario era gratuito, ogni mattina ci davano un panino dolce e una bottiglietta di latte della Centrale del Latte, anche quelli gratis. Non c’era una biblioteca di classe, e non c’era una biblioteca in casa mia, ma pochi mesi prima si era verificato quello che è, per quanto mi riguarda, l’Evento Cruciale del secolo Ventesimo: a duecento metri da casa aveva aperto la biblioteca civica “Villa Amoretti”, dal nome di un benemerito abate Giambattista Amoretti che aveva lasciato beni mobili e immobili alla cittadinanza torinese. In questa biblioteca era possibile sedersi e leggere fumetti e libri, e anche prendere libri in prestito e portarli a casa, il tutto gratuitamente.
Ho capito più tardi che questa era la norma per tutte le biblioteche, ma questa strana coppia, abbondanza + gratuità, sulle prime ha fatto, a me seienne e ai miei familiari, un’impressione non del tutto favorevole. Certo che l’Italia andava a ramengo, se si distribuivano libri gratis al primo che passava! Ma dato che l’occasione c’era, perché non approfittarne? Ho fatto la tessera. E dato che ogni tessera dava diritto a due soli libri in prestito ho costretto tutti i miei familiari a tesserarsi, e a cedere a me il controllo delle tessere.
Ho cominciato a portare a casa fumetti e libri con lo zelo di uno psicotico, a otto per volta (erano gratis, perché prenderne di meno?). La maggior parte erano tomi incomprensibili di cui leggevo solo l’inizio e la fine (avrei ritrovato anni dopo, in un libro degli adorabili Fruttero e Lucentini, Incipit, la traccia della mia stessa nevrosi); gli altri erano Fantozzi, i Classici di Topolino, Il Comandante Mark, i Peanuts, più avanti le storie di Andrea Pazienza. Poi, in un autunnale pomeriggio di pioggia (che era forse un’assolata mattina estiva) ho letto per caso a un tavolo della biblioteca Il giro di vite di Henry James, e qualcosa è scattato. Perché avevo sempre pensato che fossero i film a far paura, non i libri, e scoprire che invece era possibile far paura anche solo attraverso le parole – se uno era davvero bravo ad usarle – mi ha messo voglia di saperne di più, di vedere in quanti altri strani modi le parole potevano essere usate.
Tutta questa autobiografia per dire una cosa molto semplice, che le biblioteche sono posti che cambiano la vita, generalmente in meglio (nel mio caso sicuramente in meglio), soprattutto perché, più ancora della scuola, danno una chance a chi quella chance magari non se la trova nel corredo alla nascita, e possono mettere in moto un’infinità di cose, essere la scintilla che accende un’infinità d’interessi e passioni, e insomma, nonostante siano abitati da libri un po’ polverosi, sono posti proiettati verso il futuro quanto e più di un Apple Store. E’ una verità che viene detta molto bene, anche se un po’ brutalmente, in una scena di The Wire, quando il gangster più cattivo di tutti, Brother Mouzone – un tizio che commercia in droga e omicidi ma legge riviste highbrow come Harper’s Bazaar e The Atlantic – spiega con una bella metafora a un suo scagnozzo perché i libri sono importanti: “You know what the most dangerous thing in America is, right? A nigger with a library card”.
Così assistere alla nascita della BUC, qualche anno fa (insegno all’Università di Trento), per me è stato un po’ un simbolo, l’adempiersi di un destino, il me di allora che dà la mano al me di oggi, come in un brutto film sentimentale.
In realtà, però la BUC non avrebbe dovuto trovarsi così a sud, così lontana dal centro e dai palazzi dell’università. L’aggettivo lontano è sempre un po’ abusivo, parlando di Trento, dato che qui è tutto a portata di piedi o di bicicletta, ma in effetti non si capisce bene perché la biblioteca umanistica – quella che mette insieme i libri dei letterati, dei giuristi, degli economisti, dei sociologi e affini – stia a Trento Sud mentre i dipartimenti con aule e uffici stanno downtown Trento, a un buon mezzo chilometro di distanza. I libri non dovrebbero stare lì, a portata di mano?
Un po’ di storia, quindi.
L’Università di Trento è una delle rare success stories italiane degli ultimi decenni. Mentre il miracolo economico cominciava a farsi meno miracoloso, metà anni Sessanta, essi, i trentini, grazie anche alla leadership illuminata del presidente della provincia Bruno Kessler, inauguravano l’Istituto Universitario Superiore di Scienze Sociali, che negli anni Settanta sarebbe diventato Università a tutti gli effetti, con una certa nomea per i ben noti fatti e personaggi di Sociologia (fatti e personaggi che però migrarono subito verso sud, a Trento non c’è mai stato nessun nucleo, nessuna cellula, non sarebbero sopravvissuti alla noia dell’inverno cittadino, allo scettico buonsenso degli autoctoni) ma soprattutto con una buona e meritata fama guadagnata nella didattica e nella ricerca attraverso anni di lavoro serio, silenzioso, ostinato, e insomma trentino.
S’imponeva una biblioteca all’altezza della success story. Ora, esistono due modi diversi di gestire i libri di un’università: (1) tenerli nei dipartimenti, quelli di letteratura a Lettere, quelli di sociologia a Sociologia eccetera; (2) fare una grande biblioteca che metta insieme tutti i libri di tutti i dipartimenti non-scientifici (perché quegli altri hanno la loro biblioteca: biblioteca che a malapena usano, ormai, un po’ perché sono dei selvaggi e un po’ perché tutto viaggia in rete, e le cose si leggono dal proprio pc). La soluzione (1) è la meno dispendiosa in termini di spazio ma la più dispendiosa in termini di personale; e poi il problema è anche che la gran parte dei libri sta all’incrocio tra più discipline, e come si fa a decidere se Rawls lo si tiene a Filosofia o a Giurisprudenza, o Momigliano a Storia o a Lettere classiche, eccetera? A dire la verità, in cittadine piccole come Trento (o come Pisa, dove ho studiato) il problema non parrebbe poi insormontabile: si fanno due passi, s’indossa e si toglie il cappotto, si sta la mattina in una biblioteca e il pomeriggio in un’altra: i nostri maestri hanno lavorato così, e i risultati non sono stati male, alla fine. Ma il mondo va verso l’Unire, non verso il Distinguere, e così, come in tante altre università, a Trento si è optato per la soluzione (2), la très grande bibliothèque.
Solo che la très grande bibliothèque occupa posto, e costa un sacco di soldi. Il posto si era anche trovato, accanto ai dipartimenti “di valle” (Trento è divisa in dipartimenti di valle e dipartimenti di collina: umanisti in senso lato contro scienziati in senso lato, roba da far battere la testa contro il muro a C.P. Snow); i soldi si erano trovati, forse, o forse no, e comunque erano tanti, e a un certo punto devono essere sembrati troppi. Poi la crisi, che come sanno i manuali di self-help rappresenta anche sempre un’occasione. A Trento, nei primi anni del secolo, lo Studio Renzo Piano ha costruito un nuovo quartiere residenziale nel quartiere delle Albere, nell’area dove un tempo sorgeva la fabbrica della Michelin: edifici eleganti, green, in area silenziosa e salubre, vista montagne, tanti pregi e l’unico difetto di essere troppo cari, e forse anche troppo periferici (i trentini vivono in centro, o vivono in campagna, l’appartamento di semi-lusso “nel verde a cinque minuti dalla città” non è un prodotto che abbia tanto mercato).
Bref, gli appartamenti restano in buona parte invenduti. Per giunta, si sta costruendo un palazzo dei congressi, uno di quegli inutilissimi palazzi dei congressi che spuntano come funghi in questo paese di convegnisti, ma vista la fiacca sul mercato immobiliare qualcuno ha l’idea: invece del palazzo dei congressi facciamo una biblioteca, portiamo i giovani e i colti, ravviviamo il quartiere con la Cultura – che a quello serve, a ravvivare i quartieri (l’idea, allo stesso tempo sensata e sciagurata, è che tutto vada fatto insieme, anche leggere libri: attività che tanti anni fa io ho scelto perché volevo starmene da solo).
E insomma si fa. Gli architetti – ripeto: Studio Renzo Piano Building Workshop, non proprio il geometra dietro l’angolo, è roba che finirà nei libri di architettura – ci rimettono le mani, e il palazzo dei congressi diventa una biblioteca. Curatissima, green a livelli maniacali: “Le finiture interne – dice la brochure – sono state realizzate in bambù, un materiale che garantisce ottime prestazioni dal punto di vista della resistenza e della sostenibilità”; le vetrate della lobby sono dotate di lamelle “per il controllo della radiazione solare”. E anche ben intonata agli altri begli edifici del nuovo quartiere delle Albere (sempre Renzo Piano Building Workshop, si capisce): “I prospetti hanno un rivestimento lapideo in botticino bocciardato, sostenuto meccanicamente da una struttura metallica che riprende la finitura degli angoli di maggior pregio dei vari edifici del nuovo quartiere e che qui caratterizza la finitura di tutte le superfici opache”.
Forse un po’ freddo, nell’insieme (il quartiere, non solo la biblioteca), un po’ villaggio dei playmobil (sarà per questo che i trentini, così sentimentalmente legati al legno e alla pietra degli antenati, non rogitano?), ma insomma non stiamo sempre a cercare il pelo nell’uovo.
Scoppia la polemica? Be’, certo, scoppia la polemica, e non è che ai polemisti manchino le buone ragioni. Perché è troppo lontana, è troppo piccola, non c’è spazio sufficiente per mettere tutte le riviste, ci fa anche un po’ caldo...
Tutto abbastanza vero, ma a distanza di qualche anno sono problemi che i trentini hanno imparato a mettere in prospettiva, perché (1) la biblioteca si è fatta a tempo di record, c’è, funziona, in un paese in cui per costruire cose del genere s’impiegano decenni, e costi gonfiati, e denunce e processi (qui niente, tutto regolare e trasparente); (2) con le sue lamelle, il suo rivestimento lapideo in botticino bocciardato (“Pronunzii, sentirà che dolcezza…”), la biblioteca è comunque uno dei più begli edifici della città, nuovo landmark per le scolaresche in gita e i torpedoni in sosta verso i mercatini di Natale; (3) ci si sta piuttosto bene – oddio, ci stanno bene i giovani, soprattutto, qui n’ont jamais vecu: le biblioteche in cui si sta veramente bene sono pur sempre le biblioteche storiche: fondi antichi in palazzi antichi, le collezioni di manoscritti, la polvere che si deposita nei secoli. Se sono nuove, possono essere colorate, allegre, funzionali, piacevoli, proprio come la BUC, ma non tolgono il fiato come la Vaticana, la British Library, la Laurenziana. Io non mi sono mai ripreso dal trasloco della Biblioteca Nazionale di Parigi da rue Richelieu a Tolbiac. Quindi sono qui per lodare, ma con misura; però lodo, lodo eccome.