D. Hunter, Oliver Twist oggi
Lo scrittore, che ha avuto una gioventù da sottoproletario inglese, racconta senza moralismi la povertà, i traumi, il carcere. E la solidarietà che riscatta
"Io sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti... Non è per nietne questo che volevo dire. Non è questo, per niente." (T. S. Eliot)
E’ così facile addomesticare le immagini. Così semplice permettere al tempo di smussarne le forza e l’impatto, assimilarle. Leggere Dickens oggi evoca strade avvolte nella nebbia, bambini innocenti costretti alla miseria, insidiati da malfattori e soccorsi da angelici protettori, immagini altrettanto romantiche e fantastiche dei cavalieri in armatura e dei draghi delle fiabe, talvolta un semplice patetismo smielato per cui già Oscar Wilde ironizzava su quei trovatelli in difficoltà, su cui si rovesciavano sventure e coincidenze maledette che facevano impallidire quelle di Edipo. Eppure, al centro di quel mondo grottesco, remoto, smussato, c’è un nocciolo duro che pulsa anche oggi. In Casa desolata il narratore descrive la visita di una gran dama di carità, la signora Pardiggle, a un tugurio di disperati, nel quale si trovano “una donna con un occhio livido che accanto al focolare teneva in braccio un bambino col respiro affannoso, un uomo tutto sporco di argilla e di fango, dall’aspetto di ubriaco, disteso per terra che fumava la pipa, un giovane robusto che legava il collare a un cane e una ragazza molto disinvolta che faceva una sorta di bucato con un’acqua assai sudicia”. Come uno schiacciasassi, la benintenzionata assorbe il tutto senza lasciarsi minimamente toccare, interrogare, e annuncia: “‘Bene, miei cari amici’, ma con un tono che non mi sembrò affatto amichevole,
‘Come state? Sono di nuovo qui. Non riuscirete a stancarmi. Mi piace lavorare molto e mantengo la parola’”. E’ uno di quei passaggi metaletterari in cui l’autore si prende duramente gioco della più facile reazione alla sua stessa opera, in cui parodizza l’ottusità e lo snobismo di chi si definisce impegnato – “attivista” diremmo oggi – e in realtà non si lascia minimamente investire e interrogare dalle autentiche dimensioni di ciò che si trova a fronteggiare, a incontrare. Walter Siti ha giustamente ironizzato in Contro l’impegno su quanto, nell’epoca dei social, i “testimonial” di tante battaglie giuste imbriglino spesso il mondo nelle reti di quanto semplicemente già sappiamo essere buono e auspicabile, tagliando però fuori tutta la pressione dell’inconscio, dell’oscuro e dell’ambiguo. Una riduzione pericolosa, il sogno del sistema perfetto che evade dal buio esterno e interiore, come scriveva Eliot. Ciò è particolarmente vero nel proliferare dell’autofiction, dove la proiezione egotica della propria biografia e del suo valore esemplare sull’universo mescola al tempo stesso una condanna senza appello dei contesti violenti e ottusi da cui i narratori hanno saputo progressivamente emanciparsi a una serie di istruzioni/rivelazioni etiche che fanno eco a quelle con cui Renzo e Pinocchio credevano di appendere il capello sulle loro travagliate vicende (“ho imparato… ho imparato… ho imparato...”). Il moralismo può cambiare casacca, ma la ferocia della sua pretesa prescrittiva rimane. Ci sono però delle eccezioni.
Già Dickens si prendeva gioco della più facile reazione alla sua stessa opera, in cui parodizza l’ottusità e lo snobismo di chi si definisce impegnato
Quando D. Hunter ha pubblicato Chav. Solidarietà coatta (in Italia per Alegre), storia della sua infanzia come ladro, marchettaro e carcerato in Inghilterra, la reazione di choc a quella prosa semplice e brutale, a quei ricordi indicibili, è stata ben sintetizzata dal suo traduttore italiano, lo scrittore Alberto Prunetti: “Pare di leggere in classe un tema delle elementari al termine del quale la maestra si butta dalla finestra”. Non è una lettura edificante, poco ma sicuro. Ci sono notti passate a rovistare nella spazzatura, aggressioni, nonni che vendono il nipotino agli amici perché lo stuprino con una stecca da biliardo: “Ripenso a quando ero un bambino, ancora più macilento di come sono adesso, quando mi inchiodava al pavimento. Quando lasciava che i suoi amici mi prendessero con forza. Quando li sentivo dentro di me recitavo a memoria le formazioni delle squadre della prima divisione inglese perché il rosario e le preghiere con me non funzionavano”. Eppure, lo stesso Hunter, alcuni anni dopo, nel corso della pandemia e del “social shutdown (mi rifiuto di chiamarlo lockdown: ho provato il lockdown in carcere e si tratta di un’altra cosa)” ha deciso di tornare con Tute, traumi e traditori di classe su quanto aveva narrato, e quel nucleo pulsante di abusi subiti e inferti: “La mia mente non è nulla: un assortimento di immagini in rapida trasformazione, momenti di sofferenza e dolore che ho patito o che ho inflitto. La mia famiglia. Il pugno di mio padre, le ferite sanguinanti di mia madre. Le mie sorelle in lacrime. La mia faccia che urla. Mani che mi schiacciano a terra. I miei pugni che colpiscono facce. Estranei che implorano che io smetta di picchiarli. Sangue. A terra”. Questo perché tante risposte alla sua narrazione gli avevano lasciato la sensazione frustrante di aver mancato il bersaglio: “Uno degli scopi del libro era quello di mettere in evidenza non solo l’umanità ma anche l’intelligenza, la determinazione e le opinioni delle persone che vivono in povertà. Tuttavia, era evidente che il mio pubblico spesso interpretava i personaggi che presentavo tramite la lente del buono o del cattivo”.
In “Chav. Solidarietà coatta” uno degli scopi è “mettere in evidenza l’intelligenza, la determinazione e le opinioni di chi vive in povertà”
Le scene più infami si possono sopportare, dibattere, brandire come asce per tuonare contro il sistema, purché la cornice che le racchiude permetta di incasellarle ancora una volta in ciò che già sappiamo, nello sguardo edificante e rassicurante con cui desideriamo leggere il mondo. E’ sempre la signora Pardiggle ad annuire accogliente e inflessibile dentro di noi, filtrando le sofferenze che assorbe e digerendole senza intoppi. “Vogliono la narrazione sul punto di svolta, vogliono sapere quando la marea è scesa. C’è chi vuole qualcosa di leggero e rassicurante, che riscaldi il cuore. Vogliono vedere la luce in fondo al tunnel. O lo storytelling del trauma, presentato a uso e consumo del pubblico, come se fosse una sorta di ricompensa…”. Una richiesta implicita che si impone anche negli spazi di discussione collettiva, assemblee, dibattiti, sindacati, dove teoricamente tutti dovrebbero aver voce e invece si applica lo stesso filtro invisibile ma inesorabile: “Il tono della comunicazione e le emozioni sono tenuti sotto controllo, e quando non vengono controllati sono stigmatizzati: a chi alza la voce o piange, in una maniera che apparentemente non si adatterebbe al genere di appartenenza, viene fatto capire senza ombra di dubbio che ha trasgredito e dovrà migliorarsi. La maggior parte delle assemblee cui ho preso parte in quindici anni erano cristallizzate su profonde differenze che enfatizzavano squilibri nei rapporti di potere. Se non riconosciamo queste differenze e non lottiamo per risolverle, stiamo tradendo la nostra classe”. Come notarono gli studiosi Sandro Busso e Eugenio Graziano, “il modello di governo della povertà oggi non rappresenta la rottura netta con il passato che molti osservatori immaginano, ma al contempo è più di un semplice riciclaggio di vecchie tattiche. Si tratta del nuovo capitolo di una lunga storia, fatta di campagne moralistiche per ‘migliorare’ i poveri”.
Gli abusi del nonno, il ritratto della madre-bambina, l’immagine di un padre suprematista bianco, irrigidito nel mutismo dalla violenza
Una pressione che l’autore ha scoperto anzitutto su di sé: “E anche io volevo che queste realtà fossero solo teorie, volevo stare lontano dalla possibilità che mi aggredissero fisicamente. E questo era un atto di tradimento”. Per contrastare tale corrente interiore ecco dunque Hunter tornare a quanto aveva già raccontato, riesporsi e riesporci al grigio di un’esperienza che è troppo facile bollare come nera, in attesa d’un bianco altrettanto manicheo che la riscatti, per palesare gli unici soccorsi che lo hanno davvero aiutato, una sorta di elementare “chirurgia d’emergenza, riattaccando connessioni coi sentimenti di cura, empatia e amore che erano stati lesionati nel corso della mia infanzia”. Racconta ancora una volta del nonno che lo abusava coi compagni di bevute, cercando di fissare anche in quelle violenze l’ultimo dente di una tagliola che per primo azzannava l’altro: “Più di una volta, mentre piangevo dopo che lui e i suoi amici mi avevano stuprato, mi disse che ‘sono queste cose oscure che hanno fatto di me l’uomo che sono adesso’. Posso solo presumere che in quegli anni abbia patito più violenza di quanta ne abbia inferta”. Ci sono i ritratti formidabili e struggenti di una madre-bambina, impossibilitata anche solo a formulare la natura delle miserie che la attanagliavano – “una donna che, quando ero un bambino, mi ha mandato a letto con uomini sconosciuti in cambio del denaro necessario alla sua sopravvivenza. Una donna che è stata maltrattata anche dai servizi sociali che sono venuti a contatto con lei. E’ stata tutte queste cose assieme. Ma io la vedo soprattutto come qualcuno verso cui provare orgoglio” – e, soprattutto, con una sorta di omerica limpidezza, l’immagine di un padre suprematista bianco, irrigidito ai confini del mutismo da una violenza che costituiva l’unico alfabeto insegnatogli: “Ha braccia robuste e mani quasi sempre chiuse a pugno. Con l’età i suoi occhi blu oceano si sono placati: una volta furtivi, adesso si muovono lentamente, con attenzione, dando l’impressione di guardare e comprendere tutto quel che vedono. Penso spesso a lui e quando lo faccio la mia schiena si irrigidisce e digrigno i denti”. Lo sguardo di un moralista banale ne farebbe un orco, un piccolo tiranno ubriaco da disprezzare ed eventualmente perdonare dall’alto del podio della propria supposta emancipazione; invece, Hunter sa che “per persone come mio padre e suo padre, che hanno covato disprezzo verso gli altri, solidarietà e mutuo aiuto sono solo un ostacolo.
“Serve che vengano trasferite risorse alle comunità povere”. Non imporre soluzioni, restare in quel grigio, con i rischi che comporta
Riescono a sopravvivere rapportandosi alla vita nella stessa maniera in cui la classe capitalista riesce a prosperare, ossia abbracciando l’idea della razionalità hobbesiana che vuole il potente affermarsi sul debole al fine di soddisfare i propri bisogni e desideri”. E questo gli permette persino di risalire ancora più addietro, e provare a contemplare silenziosamente quell’uomo duro e feroce quand’era a sua volta bambino, così spezzato dalle cinghiate da tacere e passare per cretino in classe: “Posso immaginare gli altri scolari che ridono per le sue risposte mentre la maestra lo interroga, posso sentire il suo sangue che ribolle. Posso sentire la campanella della ricreazione che suona, lui che esce nel giardino alla ricerca di qualcuno da colpire e umiliare”. Pare di leggere Canto Di Natale – leggerlo davvero, con occhi rinnovati – quando Scrooge rimira se stesso a scuola, nel passato, e il vecchio avaro scova le radici dell’adulto inacidito nelle ore vuote e disperate del ragazzino abbandonato. Tentare una simile empatia verso un’altra persona – così prossima e dolorosamente distante – è persino più arduo che verso se stessi. Alcuni dei passaggi più struggenti di Hunter sono la rievocazione dell’unico spazio di condivisione possibile, le gite a tifare con gli skinhead che urlano insulti razzisti – e il narratore bambino li ha strillati con loro, e ancor oggi sa che quei ghetti identitari erano l’unico spazio in cui poteva rifugiarsi – o le partitelle di calcio: “Giocavamo soprattutto con una sorta di disperazione furtiva, attribuendo un senso particolare a quelle vittorie. Sarebbe troppo bello pensare che in quel pomeriggio lui stesse giocando con un bisogno disperato di trovare un rapporto con me, una connessione, di costruire un legame paterno. Immagino invece che per lui il punto fosse battere, sconfiggere altre persone in una maniera per una volta socialmente accettabile”.
Ed ecco, quasi per contrasto, per negazione, quella chirurgia delle relazioni, unica cura possibile, uno spazio a sua volta grigio e sporco, dentro le contraddizioni, le manipolazioni, le sopraffazioni, in cui però si fanno largo la cura reciproca, l’ascolto. Ci sono gli infermieri che ti obbligano al sesso orale ma ti insegnano a leggere Gramsci o Baldwin – “all’inizio la mia esperienza dei libri era simile alla mia esperienza della vita: qualcosa che ti colpisce di rimbalzo a tutta velocità, a cui ti aggrappi per rimanere vivo, sperando di non uscirne a pezzi” – le corse nei prati con la madre, le amiche di furti e sballo che, per un attimo, si rilassano in un gesto libero, gratuito: “Valerie fruga tra le cassette fino a quando non ne trova una che le piace. La infila nella radio e alza il volume. Gira una sigaretta, l’accende e me la passa. Poi se ne fa una per sé e abbassa il finestrino. Con la sigaretta in bocca tira fuori le lunghe braccia per godersi il vento”.
L’unica convinzione che se ne ricava è che “se si vogliono riparare i danni che sono stati fatti ai corpi e alle menti di ragazzini e adulti poveri e working class, non sono certamente degli adulti di classe media a doverci provare giocando a essere madre Teresa di Calcutta. Quel che serve davvero, è che vengano trasferite risorse alle comunità povere e working class”. Valorizzare uno spazio, non imporre soluzioni, restare in quel medesimo grigio, con tutti i rischi che ciò comporta: “Si tratta di un lavoro collettivo che ci espone alla vulnerabilità verso gli altri, a un’apertura che può creare errori, che può indurci a tirare fuori il peggio di noi”. La scena forse più commovente dell’intero libro si svolge col narratore appena uscito di prigione.
C’è una vecchia signora con la borsa della spesa, e sarebbe così facile spintonarla e rubarle il sacchetto. Hunter ha un singhiozzo, cerca una sigaretta, alza lo sguardo, e la donna non c’è più. Nessun pensiero edificante, nessuna decisione morale esplicita, nessuna lezione. Solo una polla di silenzio, di pena per sé e per l’altro, e al tempo stesso un tenue, lievissimo scarto, le cui radici sarebbe così riduttivo esplicitare. Solo la scoperta che “quel che si può apprendere, si può disimparare”. Solo la fiducia accordata a quel processo personale e comunitario: “Cercate col pensiero di eliminare un dato giorno speciale della vostra vita e pensate a come diverso potrebbe essere stato il suo corso. Fermati, tu che leggi, e medita per un momento sulla lunga catena di bronzo o di oro, di spine o di fiori che mai ti avrebbe soggiogato se in un solo memorabile giorno non si fosse formato e chiuso il primo anello.” Anche queste erano parole di Dickens.