Le case dei libri non sono di carta - 2
Il granaio delle Scienze
A Brescia c’è una porticina che ammicca nel lato di un antico cortile. Varcarla è un privilegio. Qui gli antichi libri sembrano parlarsi. E’ il magnifico Fondo Viganò nelle Raccolte storiche della Cattolica
La vita di un uomo non si può spiegare con una sola parola. Però con migliaia di pagine sì: meglio se altrui, ingiallite, con legatura pergamenacea. Ma andiamo con ordine. Chi avesse la fortuna (la possibilità è aperta a tutti) di frequentare la biblioteca della sede di via Trieste 17 dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia all’interno del Palazzo Martinengo Cesaresco dell’Aquilone – stemma nobiliare che tripudia sulla sommità del portale – e di passare del tempo a leggere, studiare e compulsare i suoi volumi magari abbandonandosi alle inevitabili fantasticherie sbirciando attraverso i suoi finestroni all’inglese o rimuginando nel rigoglioso cortile su cui si affaccia in trionfante chiarità, non dovrebbe perdere l’occasione, in una di queste pause peripatetiche, di infilare una porticina che si trova giusto all’ingresso, sulla destra, nella piccola area-informazioni. Ammicca irresistibilmente in cima a quattro gradini e va presa sul serio, aperta con circospezione e ben consci della sacralità del privilegio. Perché si tratta, a tutti gli effetti, di una porta del Tempo.
Quest’ala dell’edificio che oggi ospita la biblioteca e le sue adiacenze fu abitata un tempo da Lattanzio Gambara, noto pittore cinquecentesco che dipinse le scene bibliche, ad Asolo, di villa Contarini – più nota come “degli Armeni” – e affrescò la navata centrale del Duomo di Parma e la sala dei giganti nel Palazzo Imperiale dell’Arena. Nel piccolo, ombroso e silenziosissimo cortile in cui ci si trova a sbucare, se ne possono ammirare ancora le decorazioni, viatico perfetto per scoprire la perla eclatante: la biblioteca di Storia delle Scienze Carlo Viganò; perla non più nascosta dato che, per fortuna, nelle giornate di primavera del Fai a marzo 2019, contro ogni aspettativa, è stata visitata da tremila persone.
La biblioteca è parte dell’attivissimo Centro documentazione e ricerca Raccolte storiche dell’Università Cattolica di Brescia diretto dal professor Andrea Canova ed è gestita con intelligenza e cura dal dottor Pierangelo Goffi e da Diego Cancrini, studioso di Filologia e Storia e collezionista egli stesso. Venne donata all’Università proprio dall’ingegner Carlo Viganò nel 1973 e “messa a disposizione degli studiosi ad incremento degli studi sulla storia delle scienze”. Nato nel 1904 da una famiglia brianzola impegnata nell’industria della seta e del cotone, Viganò studiò presso il collegio Arici di Brescia – istituto importantissimo in città, ricco di storia e di fama, che concesse in condivisione alla Cattolica gli attuali edifici – e nel 1927 si laureò in Ingegneria al Politecnico di Milano. Nel 1929 si trasferì definitivamente a Brescia per seguire le imprese di un ramo della famiglia, poi si sposò, fece quattro figli, fu presidente di Banca San Paolo e membro della Giunta esecutiva dell’Associazione Industriali bresciana, promotore dell’Unione cattolica Dirigenti, presidente della Croce Bianca e della casa editrice Morcelliana (linea editoriale di eminenti studi biblici e letteratura cristiana antica, fondata nel 1925, tra gli altri, dal futuro papa Montini, che fu studente proprio dell’Arici), sostenne generosamente l’editrice La Scuola e l’Università Cattolica negli anni impervi della ricostruzione. Imprenditoria illuminata, per dirla in due parole, ma soprattutto capace di illuminare, di credere non solo in se stessa, e non solo nel presente.
La collezione Carlo Viganò ha una storia che vale in sé, trattandosi di una grande storia d’amore, e un valore indiscutibile a livello nazionale ed europeo di tipo squisitamente bibliografico, giacché annovera la quasi totalità delle più importanti opere di argomento scientifico stampate tra la fine del Quattrocento e i primi del Novecento. La completezza e l’omogeneità sono la sua forza – completezza e omogeneità a tutela delle quali hanno contribuito anche gli eredi, ed è cosa rara, sono purtroppo molto più frequenti le storie di dispersione delle collezioni dopo la morte dei titolari – e anche la ricchezza intratestuale che la costituisce: nel Fondo è presente ogni opera a cui si faccia allusione in un’altra, e non necessariamente di contenuto prettamente scientifico – tra i suoi scaffali, per esempio, si può incontrare un “Orlando Furioso”, ovviamente nella medesima edizione veneziana (Vincenzo Valgrisi, 1572) che possedeva anche Galileo Galilei e che aveva postillato; quanto a Galilei, sono custodite quasi tutte le prime edizioni e le principali degli “Opera Omnia”. Insomma, qui i libri comunicano. Qui vivono manoscritti, incunaboli, repertori, monografie, edizioni critiche, testi di astronomia medievale e rinascimentale, oroscopi, documenti di architettura militare e arte della guerra, testi di idraulica e meccanica, cartografia e astrologia. Qui le storie umane e intellettuali si cercano e si trovano, si intrecciano e si inseguono per un totale di diecimila volumi tra Fondo Antico e Fondo Moderno. E chissà – vien da pensare tra questi legni morbidamente asprigni e queste copertine, calpestando il silenzioso ma partecipe parquet di questo paradiso bibliosufficiente – chissà, di notte, quali segreti incontri e recondite dispute, chissà quali convegni di eminentissimi fantasmi e quali fuochi fiammanti esalano da queste pagine che parlano e, in alcuni casi, cantano, ricoperte da carte originali che, in qualche caso, sono antifonari d’epoca, o tenute insieme da rilegature realizzate con vecchie pergamene di riuso (fogli membranacei, nervi di cucitura, patte di rilegatura: esiste tutto un filone di studi - mi raccontano - che ricostruisce la storia delle pergamene che, storicamente, precedono l’avvento dei volumi, ricerche che si sviluppano intorno a frammenti di frammenti, smembrati per riparare l’indorsatura di un libro e che spesso fanno capolino tra le lacune della carta come mondi che riemergono e si rivelano).
La biblioteca Viganò è l’universo mondo in quaranta metri quadrati, in una sede che merita anche solo di essere annusata oltre che, ovviamente, ammirata da cima a fondo, festa degli occhi e dell’anima, tesoro accumulato e salvaguardato secondo criteri di rigore, curiosità e commovente dovizia. Una delle prime opere di questa portentosa collezione - da subito a conoscenza delle intenzioni del giovane Viganò fu padre Agostino Gemelli, che il giovane ingegnere aveva conosciuto ai tempi degli studi universitari a Milano - pare sia stata l’editio princeps della Arithmetica universalis di Newton. Il volume riporta la data 1.8.1929 e la chiosa orgogliosissima: “Libro raro e introvabile”. Capostipite di tutta la famiglia biblio-scientifica donata quarantaquattro anni dopo (nel 1974 Viganò venne insignito di una laurea ad honorem di cui non avrà mai notizia perché morirà d’infarto il giorno successivo alla sua deliberazione da parte del Senato accademico della Cattolica, il che fa di questa storia d’amore un doloroso cerchio non chiuso), il fondo testimonia sì l’amore per i libri, ma anche per la grande traiettoria umana, per le fatiche della ragione, per le conquiste e la passione a misurare e comprendere il mondo, insomma, per l’avventura titanica del pensiero, ed è, contemporaneamente, umanistica e scientifica, sentimentale e intellettuale. Ogni cinquecentina racconta l’umanità, la sua vitale ostinazione, ed è una bellissima storia di persistenza - passione anacronistica. Le scaffalature originali sembrano trattenere qualcosa del sentimento di Viganò, che riversò il senso del suo amore anche nel motto che scelse come ex libris - “ne’ miei dolci studi m’acqueto” - e che fu, con tutta probabilità, disegnato da lui stesso, a rimarcare il valore rigenerante di una passione certamente individuale ma con le finestre sempre aperte al mondo, spalancate sull’anima dell’uomo e dell’universo, mai concepita se non con l’intenzione di essere tramandata e donata.
Un po’ di numeri. Il Fondo antico della bilioteca è costitutito da 11 incunaboli, 600 cinquecentine, 2.000 edizioni del Seicento, 2.500 edizioni del Settecento e 70 manoscritti tra il XV e il XIX secolo. Quello moderno, da 5.000 volumi. “Il codice manoscritto più antico,” racconta Pierangelo Goffi snocciolando disinvoltamente e a memoria, “è una miscellanea astrologica con legatura originale su assicelle di legno e vergata in scrittura mercantesca da due diversi copisti. Contiene, preceduto da un Breve introductorium ad calculum astronomicum assegnato a un Magistro Matheo de Mantua, il Libellus isagogicus dell’astronomo arabo Alcabizio tradotto in latino da Giovanni di Siviglia, con alcune profezie in volgare per l’anno 1482 e un’appendice di scritti astromomici e astrologici in latino. Il libro a stampa più antico, invece, è l’incunabolo Giovanni Sacrobosco Sphaera mundi, Venezia, Erhard Ratdolt 1482”. E poi opere come Gli elementi di Euclide nella prima traduzione italiana curata da Niccolò Tartaglia - di cui, tra l’altro, qui è custodito il corpus - e ricca anche la presenza di scienziati gesuiti, per un totale di 344 volumi. Interessante vedere coi propri occhi l’evoluzione degli studi scientifici e della loro impostazione di pari passo con la scoperta di nuove terre, e di come si passi dalla summa medievale, cioé dall’idea di un sapere percepito e presentato come definitivo, al tractatus, frutto di una conoscenza concepita come dinamica e, per definizione, aperta al proprio stesso superamento. Questa traiettoria è qui ben visibile, ma cosa convinse Viganò a occuparsi personalmente dell’integrità del tesoro bibliografico e storico che stava accumulando? Da un dispiacere altrui, avvertito come proprio: pare che, entrato in possesso di alcuni volumi che appartenevano alla dispersa collezione del professor Antonio Favaro – matematico, storico delle scienza padovano e curatore dell’edizione nazionale delle Opere di Galileo Galilei, che in un appunto lamentava la dispersione della collezione dell’astronomo e medico del XIV secolo Giovanni Dondi – fu colpito al punto da aggiungere a margine, in uno di quei passaggi, con la sua grafia leggera, a matita, “…e non pensava che anche la sua biblioteca avrebbe fatta la stessa fine!”.
Da quel momento Viganò lavorò per salvare la propria, rafforzandosi nella convinzione che non si trattasse di un investimento economico personale ma di un valore collettivo da trasmettere. In questo senso, utilissimo per capire la generosità e la lungimiranza dell’uomo, anche il suo formidabile carteggio: due faldoni zeppi che testimoniano la ricchezza delle sue relazioni internazionali e il fervore con cui le portava avanti. Spessissimo Viganò riceveva lettere di studiosi che gli chiedevano di verificare una citazione, e lui verificava, rispondeva, suggeriva, ma sempre con compostezza e grande intelligenza delle proporzioni - e rilanciava, proponeva, offriva.
“Stimatissimo dottore,” gli scriveva William Shea, storico della scienza di fama mondiale, “la ringrazio del pensiero gentilissimo di mandarmi i primi volumi delle opere del Tartaglia.” E dopo aver spedito – notevoli la generosità e la disinvoltura con cui lo faceva - ecco che Viganò rispondeva a Stillmann Drake, traduttore di Galileo e insigne studioso, docente di Storia della scienza all’Institute of the history and philosophy of science and technology dell’Università di Toronto, che nel frattempo lo ringraziava confessandogli che a solo lui doveva gratitudine per aver colmato l’unica lacuna in materia – Viganò gli aveva consentito di accedere all’edizione dei Cartelli di sfida matematica tra Tartaglia e Ferrari, e lo studioso commentava gratissimo: “This is the only Tartaglia’s material that I have not yet been able to see!”
Nel medesimo spirito dell’originaria e autentica missione culturale portata avanti senza clamori e in spregio di ogni avarizia, il Fondo è aperto a tutti. E talvolta va in trasferta: il 27 giugno scorso, presso l’università di Kassel, in Germania, si è tenuto il convegno “Biblioteche italiane, lo spazio del sapere” organizzato dall’Italien-neztwerk, gruppo di natura accademica e interdisciplinare, e il patrimonio del Fondo Viganò è stato apprezzato da tutti gli studenti e docenti della Facoltà cui Pierangelo Goffi l’ha raccontato e mostrato in tutta la sua magnificenza.
“Biblioteche come granai pubblici”, faceva dire Marguerite Yourcenar all’imperatore Adriano - esiste similitudine migliore? E se dovrà proprio venire, quest’inverno dello spirito, che sia breve, brevissimo: noi, intanto, sapremo non farci trovare impreparati.
Il visitatore non perda l’occasione di infilare una porticina che ammicca irresistibilmente e va presa sul serio, aperta con circospezione e ben consci della sacralità del privilegio.S tratta, a tutti gli effetti, di una porta del Tempo
La biblioteca è parte dell’attivissimo Centro documentazione e ricerca Raccolte storiche dell’Università Cattolica di Brescia. La collezione Carlo Viganò ha una storia che vale in sé, trattandosi di una grande storia d’amore, e un valore indiscutibile a livello nazionale ed europeo.
Qui vivono manoscritti, incunaboli, repertori, monografie, edizioni critiche, testi di astronomia medievale e rinascimentale, oroscopi, documenti di architettura militare e arte della guerra, testi di idraulica e meccanica, cartografia e astrologia, chissà, di notte, quali segreti incontri e recondite dispute, chissà quali convegni di eminentissimi fantasmi e quali fuochi fiammanti esalano da queste pagine.
Viganò lavorò per salvare la propria, rafforzandosi nella convinzione che non si trattasse di un investimento economico personale ma di un valore collettivo da trasmettere
“Illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta”. È la Biblioteca di Babele per Borges. Per il Foglio, le biblioteche sono luoghi da scoprire, sono la storia e la cultura di chi le ha edificate e di chi le vive ogni giorno. Abbiamo affidato ai nostri scrittori un viaggio del cuore alla scoperta delle più belle biblioteche italiane.
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