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caro amico non scrivo più

Nonostante social e chat, i giovani non sono meno alfabetizzati dei loro nonni

Fabiana Giacomotti

Che le nuove generazioni si siano dimenticate come si scrive non è vero: nel secondo Dopoguerra un'italiano su otto era analfabeta. I social però hanno ridotto il lessico di tutti e la scrittura è diventata una decorazione

Nella scena clou di “Gli anni più belli”, uno di quei film di Gabriele Muccino che ci rappresentano nella versione gridata ma anche un po’ veritiera di noi stessi, ci sono i tre amici d’infanzia che si ritrovano alla mezza età, tutti così disillusi, corrotti e disincantati da non poter fare altro che prendersela con le nuove generazioni e i loro sogni. “Mia figlia nun me parla gnanche ppiù, me manna le faccette”, dice Pierfrancesco Favino, avvocato di successo e di ogni obliquità. Ce l’ha coi giovani pure Claudio Santamaria, padre, attore e persino grillino fallito perché nonostante la militanza stretta (“aho, i social hanno dato voce a ggente che nun l’aveva”: il film è del 2020, Rousseau era ancora una piattaforma funzionante) non è stato eletto e campa di lavoretti. “E allora smettetela de compraje sti c… di cellulari”, ribatte Kim Rossi Stuart, una vita da precario, che alle sue classi di Greco e Latino insegna però a “volare alto” e infatti ritrova l’unico barlume di lucidità in quel tavolo ingombro di bottiglie vuote e amori perduti: “Comunque, già duemila anni fa Plinio diceva che i giovani non c’avevano futuro, vedeva tutto nero. Se c’avesse avuto raggione, l’umanità se sarebbe estinta da ’n pezzo. La verità è che i vecchi hanno sempre rotto il c…, hanno sempre parlato male dei ggiovani, e i ggiovani a quel punto… è ’na ruota… hanno sempre parlato male dei vecchi”. E se lo diceva Plinio figurasse, motteggiano i tre, sazi e sbronzi, senza rendersi conto che con quella presa di distanza dai loro figli hanno siglato senza possibilità di ripensamento la propria anagrafica, un po’ come quando ci si butta sulla poltrona esalando un “ouuff” di sollievo come faceva la nonna Emma e si capisce che, un sospirone di sollievo dopo l’altro, si è scavallata la cima della montagna e si inizia a fissare l’abisso. 

Da qualche tempo noi boomer guardiamo ai social come sentina di tutti i mali, i corruttori della mente, dei modi e delle abilità psicolinguistiche

Che tutti i cinquanta-e-qualcosa prendano la discesa come una marcia a tappe forzate di recriminazioni e invettive contro le nuove generazioni imbelli, ignoranti, incapaci perfino di scrivere il proprio nome eppure arrogantissime è una faccenda antica. “Ai miei tempi”, o tempora o mores: una giaculatoria interminabile. Orazio che se la prende con “questa gioventù di sbarbati” che non guarda al futuro ma sperpera i propri soldi, de la Rochefoucauld che ha in dispetto la maleducazione dei ragazzi “che essi scambiano per spontaneità”, quindi l’Italia fascista che “sfida chiunque tenga gli occhi bene aperti a negare che vi sia, come mai prima, un’attitudine da parte dei giovani a comportarsi in modo grossolano, sprezzante, rude e assolutamente egoista”, e ancora gli anni Novanta dove si punta il dito contro la generazione fresca di scaffale (quella che passerà alla storia come la X generation di Douglas Coupland) che “vive così bene e si lamenta con tanta amarezza”. Si potrebbe continuare sulla stessa linea, compresa quella dolente e autogiustificatoria del “futuro che abbiamo rubato ai nostri ggiovani” e a cui una volta Barbara Palombelli, che ha allevato una bella famiglia variegata e composita, rispose serena come tutte le generazioni abbiano dovuto rubarlo e conquistarselo, il futuro, e che in buona sostanza nessuno ti regala niente dunque, se hai coraggio, vai fuori e prenditi quello che ti spetta. 

Da qualche tempo noi boomer, che quarant’anni fa avremmo incarnato il mito negativo dei “matusa” (e questo, volendo, sarebbe già uno spunto perché vai a chiedere adesso a un diciottenne chi fosse Matusalemme) abbiamo aggiunto una nuova freccia al nostro arco, che sono appunto i social. La sentina di tutti i mali, i corruttori della mente, dei modi e delle abilità psicolinguistiche che noi abbiamo conservato in qualche modo, grazie alla nostra formazione arcadica e invece loro no, povere caprette che digitano tutto il giorno sullo smartphone che noi stessi gli abbiamo regalato. Sull’onda della pubblicazione degli ultimi risultati delle prove Invalsi e di una vague allarmista sulle competenze linguistiche degli italiani, il tema del momento è che i giovani non abbiano mai acquisito la capacità di scrivere per colpa unica ed esclusiva dei social; non perché noi teniamo in casa giusto un Clive Cussler che trasciniamo da una sdraio all’altra da quattro estati, macchiato di crema abbronzante, e non entriamo in un museo nemmeno nelle domeniche di visite gratuite. Se i nostri figli, talvolta anche i nostri nipoti, non sanno tenere una penna in mano perché digitano anche a scuola e non di rado lo fanno in versione vernacolare-tronca come il clan Totti (“amo’”, “vie’”) o creativa (“apposto” in luogo di “a posto”, confondendo participio e locuzione avverbiale), è colpa dei social. 

“Miseria e nobiltà” racconta una vasta fascia di popolazione che ancora in pieno ’900 doveva affidarsi a uno scriba per le comunicazioni più semplici

Ultimamente non si prendono nemmeno la briga di digitare perché mandano vocali, quelle espressioni maleducatissime della comunicazione che disequilibrano i normali rapporti dialogici fra esseri umani per porne uno, il ricevente, “quello che ascolta”, in posizione di sudditanza e che dunque ci danno particolarmente sui nervi, essendo di solito stati troppo educati per rispondere a tono con lo stesso mezzo. Ti mando un vocale di dieci minuti soltanto per dirti che sono felice. Insomma, questi giovani parlano parlano e non sanno più scrivere, e su questo non ci sono dubbi, che è un fatto seccante anche se si pensa a quanto tempo e quante righe noi giornalisti dedicammo vent’anni fa al futuro glorioso della scrittura che attendeva l’umanità proprio grazie ai social che, pur nell’esiguità dello spazio disponibile, anzi proprio grazie a questa, avrebbero favorito la comunicazione scritta e la sintesi, tanto ostica a noi italiani nonostante gli illustri antecedenti di Roma imperiale. A cavallo del nuovo millennio si scoprì infatti che il mondo rischiava di scrivere sempre meno; sempre meno di quando non si sa visto che, al termine della Seconda guerra mondiale, l’analfabetismo riguardava ancora un ottavo degli italiani, all’incirca sei milioni di persone, e non era nemmeno “di ritorno” come adesso perché non c’era mai stata un’andata. 

“Miseria e nobiltà” non traccia un quadretto di fantasia; racconta la realtà di una vasta fascia di popolazione che ancora in pieno Novecento doveva affidarsi a uno scriba per le comunicazioni più semplici. Dalla lettura di quel delizioso libriccino di educazione sentimentale omosessuale che è “Io e Pasolini”, scritto dal critico musicale Anton Giulio Onofri, ho scoperto che addirittura negli Ottanta delle ultime stagioni di naja c’erano soldatini del sud che chiedevano la stesura di missive amorose al compagno di stanza versato nelle belle lettere per poi cadergli fra le braccia, travolti dalla nostalgia di lei. Insomma, prima di chiamare in causa il nostro Plinio e di scuotere mestamente la testa, dovremmo ricordarci che l’Italia, come quasi ogni paese di cui apprezziamo la letteratura, non è esattamente lo specchio del carteggio fra Federico De Roberto ed Ernesta Valle, una vita intera ad amarsi e scriversi affettuosità, bensì la riproposizione in digitale dei bigliettini puramente informativi che un tempo ci si scambiava con il lattaio, il prete e il medico. Lo so perché quel perfido di mio padre raccolse per tutta la sua lunghissima carriera, in un album rilegato in marocchino scuro, i fogli di carta più teneramente ignoranti, più buffi, più inavvertitamente sconci che gli venivano recapitati all’ospedale. Comprendeva e accoglieva le debolezze umane con una lungimiranza di cui v’è traccia anche nella toponomastica milanese; la sua debolezza era il divertimento che gli procuravano quelle missive in cui le ragadi diventavano le arachidi, dove l’unico tempo verbale usato era il presente, pari pari a come si dice accada adesso a causa dei maledetti social, e la consecutio non veniva nemmeno presa in considerazione perché se ne ignorava l’esistenza. 

I biglietti per il medico, in cui le ragadi diventavano le arachidi, dove l’unico tempo verbale usato era il presente, pari pari a come si dice accada adesso

Dunque, se è possibile che gli aspiranti magistrati di un tempo non fallissero in massa la prova scritta per ignoranza della sintassi com’è accaduto a Roma un paio di mesi fa perché la bocciatura non era un’onta familiare da lavare a colpi di sentenze del Tar e se c’era da ripetere si ripeteva, pare difficile che sia esistito un siglo de oro in cui tutti noi italiani avremmo potuto rivaleggiare di penna col cavalier Marino. I social, viva le previsioni sbagliate, non hanno certamente migliorato le nostre capacità di scrittura mentre, anzi, hanno assottigliato il nostro lessico sotto il limite ritenuto minimo delle duemila parole; chiunque insegni sa benissimo che la confusione fonetica fra le ragadi e le arachidi è ancora all’ordine del giorno (“ma prof, suona quasi uguale”) e di sicuro, fra i Sessanta e gli Ottanta ci siamo illusi che saremmo diventati un paese ad analfabetismo zero, di andata, di ritorno e anche di grand tour. Che, anzi, avremmo imparato l’inglese e ce ne saremmo serviti con indifferenza. Non è andata così, e ne abbiamo le prove nel texting italiese bastardo selvaggio che ci accompagna da qualche anno (“mi forwardi la mail pls”). 

Però è anche vero che, se i nostri figli non sanno più nemmeno scrivere una cartolina alla nonna dai luoghi di vacanza (che, poi, chi manda più una cartolina quando ne puoi confezionare una perfettissima, scattata da te e impaginata come preferisci, con una qualsiasi app, e inviarla alla nonna via whatsapp: le cartoline ormai svolgono il ruolo di souvenir e si collezionano, non si spediscono), di contro la scrittura a mano è diventata il segno ultimativo dello chic. L’espressione più calda e affettuosa della famosa “experience” di acquisto, o di viaggio o di educazione. Moda, hotellerie di lusso, private banking: mentre le istituzioni italiane, francesi e tedesche denunciano la perdita della capacità di scrittura dei bambini, delle competenze grafiche più basiche, il bigliettino vergato a mano dal direttore è diventato il complemento necessario dell’accoglienza nell’albergo di lusso, il simbolo più efficace della cura che riserva il banchiere di famiglia, il segno di deferenza indispensabile dalla piattaforma e-commerce che consegna un ordine di diecimila euro. Nessuno oserebbe inviare un bouquet di fiori di ringraziamento per un articolo particolarmente gradito da parte di Giorgio Armani, di Pierpaolo Piccioli o di qualunque fra i designer anche più iconoclasti senza l’aggiunta della letterina vergata a mano da parte del designer stesso. 

La scrittura a mano è diventata il segno ultimativo dello chic, calda espressione della famosa “experience” di acquisto, di viaggio o di educazione

Nella moda c’è chi ne fa collezione da anni, e un tempo il segno imperioso del pennarello di Karl Lagerfeld, colossale amanuense, era più atteso dell’invito alla sfilata. Esiste uno stile di vita, un sistema di rapporti, ma anche un livello di spesa in cui l’educazione alla scrittura, cioè a chi, che cosa e quando scrivere, rigorosamente a mano, sono segno indispensabile di educazione e uso di mondo, esattamente come ai tempi di Saint-Simon: gesti e formule che si apprendono da bambini, osservando la mamma che accompagna il bouquet di fiori per l’invito al pranzo con due righe a mano: “A stasera con gioia”. Chi arriva nella moda lo apprende subito, insieme con tutte le formule di cortesia. Dice il direttore generale di Pineider, Giuseppe Rossi, che carta, penne stilografiche e biglietti rappresentano un mercato in crescita, sia in Italia sia negli Stati Uniti, in particolare dopo i successivi lockdown: bloc notes, carta da lettera personalizzata. Anche Mont Blanc ha ottime performance, guardate i bilanci di Richemont per sincerarvene. Dunque sì, si scrive, a mano, eccome. “Il livello alto del mercato continua a funzionare benissimo”, osserva. “La fascia che stenta è quella più bassa”. E’, anche questo, un segno del crollo del sistema borghese, dell’aspirazione sociale, della sconfitta di un mondo a cui un tempo si guardava con spirito di emulazione e che adesso al popolo degli “amo’” sembra un po’ ridicolo. Il sogno dell’abilità lessicale diffusa è durato, comunque, meno di mezzo secolo.

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