Inherent vice
Storie di scienziati ipovedenti che lottano contro il pregiudizio
Troppo spesso chi non vede è considerato meno in grado di portare un impatto nel mondo. Michele Mele nel suo libro cerca di scardinare queste convinzioni senza fondamento
Il compositore inglese William Sterndale Bennett disse in una circostanza: “Devo ammettere di invidiare gli scienziati. A differenza della gran parte di noi, essi parlano la lingua del vero e, mentre conversano con Dio, l’universo scorre tra le loro dita”. Questa frase è assai indicativa se gli scienziati in questione sono chiamati a osservare il cosmo proprio con quel particolare strumento di lavoro che è il tatto. Il giovane matematico ipovedente Michele Mele – che svolge attività di ricerca su problemi di Ottimizzazione Combinatoria presso l’Università del Sannio e coordina il progetto “Accessibilità all’Arte” del Touring Club Italiano – ha radunato in un eccellente florilegio dieci biografie di personaggi della scienza e della tecnica, ipovedenti o non vedenti: L’universo tra le dita (prefazione di Veronica Gavagna, Edizioni Efesto, 144 pp., 13.50 euro) è il frutto di una seria battaglia condotta dall’autore contro i “pregiudizi”, la “discriminazione sistematica” e il “tarlo dell’ignoranza” che gravano tutt’oggi contro gli ipovedenti e i non vedenti, trattati spesso con falsa condiscendenza, considerati diversi e non capaci di studiare e realizzarsi.
Come scrive Mele nell’introduzione al testo, “secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità circa un quinto delle persone con bisogni speciali, il 3% della popolazione mondiale, è composta da ipovedenti e non vedenti, con i primi in numero triplo rispetto ai secondi. Si tratta di una delle categorie più bistrattate e incomprese, nonché di una minoranza fortemente penalizzata all’interno del mondo del lavoro. Il tasso di disoccupazione tra gli ipovedenti varia drammaticamente a seconda della nazione, passando da valori compresi tra il 15% ed il 20% in Svezia, Norvegia, Regno Unito e Australia a valori che superano il 75% in Spagna, Montenegro, Romania e Croazia. Per i non vedenti la situazione risulta ancor più drammatica, dato che negli Stati più virtuosi poco più della metà dei non vedenti trova lavoro; meno di uno su dieci in Spagna o Grecia”.
Questa è la decima puntata della rubrica Inherent Vice. Come prescrive il diritto marittimo, il “vizio intrinseco” è tutto ciò che non è possibile evitare. Potrebbe essere anche una visione specifica, una chiave di accesso della letteratura americana, a cui questa rubrica è dedicata.
Eppure la scienza ci insegna che le cose stanno diversamente. Dal matematico Nicholas Saunderson al fisico Eulero, dall’ingegnere civile John Metcalf all’entomologo François Huber: moltissime sono le storie (entusiasmanti), le imprese e le scoperte che “provano concretamente l’inconsistenza degli stereotipi, dimostrando come i processi di inclusione favoriscano le possibilità per le persone con bisogni speciali di seguire la strada che il talento suggerisce, al di là di ogni ostacolo materiale o ideologico”. Sono cinque gli scienziati americani che fanno la loro comparsa nel libro. Jacob Bolotin (1888-1924), di origine ebraica, nato “privo della più minima percezione della luce”, compì gli studi di medicina a pieni voti, rimbalzando ben presto “su tutti i giornali locali”. Superò la prova dell’esame di abilitazione “con il punteggio più alto dello Stato” e, abbattendo una sequenza impressionante di tabù, fu il primo medico non vedente al mondo, esperto nelle malattie del cuore e dei polmoni. Anche l’inventore Abraham Nemeth (1918-2013) proveniva da una famiglia ebrea ed era affetto da una “degenerazione maculare” combinata con una “retinite pigmentosa”. Assunto dall’Università di Detroit, “iniziò a sviluppare [...] un fedele ed efficace sistema di notazione matematica in Braille che divenne ben presto il suo principale tema di ricerca”.
Fra i quattro scienziati viventi presi in considerazione da Mele, oltre all’ingegnere biomedico britannico Damion Corrigan, figurano gli statunitensi Lawrence Baggett (1939), Mona Minkara (1987) e Henry Hoby Wedler (1987). Se il primo insegna all’Università del Colorado ed è autore di un teorema il cui risultato di globalità si rivela “un utile sostegno matematico per i fisici quantistici nei loro tentativi di descrivere il nostro universo e la sua stessa formazione”; la seconda si occupa di chimica ed è docente alla Northeastern University di Boston, dove svolge un’intensa attività teorica legata alle “differenti classi di tensioattivi” e ai cosiddetti “Algoritmi di Montecarlo”. Il terzo, chimico e imprenditore californiano, è invece il fondatore di Senspoint, “una società di consulenza strategica creativa che offre supporto alle aziende e agli enti che si propongono di offrire un’esperienza multisensoriale ai propri clienti”. La prosa di Mele è piacevole, competente (come dimostra il lungo spettro bibliografico in coda al volume) e ha il pregio di immergerci in vicende straordinarie, dove le barriere umane sono costantemente trascese nel segno della tenacia, della speranza e di un’inesausta tensione conoscitiva.