Viaggio nel carcere di Santo Stefano, sulle tracce del patriota Luigi Settembrini. La sua liberazione è degna di un film

Francesca D'Aloja

Eretto nel 1795, il carcere è noto per aver ospitato illustri patrioti e prevedeva il controllo simultaneo dei prigionieri da parte di un unico guardiano posto al centro dell’edificio semicircolare. Settembrini ci trascorse 9 anni

Non tornavo a Ventotene da almeno quindici anni. L’ultima volta non era per il mare né per il sole che c’ero andata. Il mio obiettivo era l’isolotto di Santo Stefano, sul quale fu eretto, nel 1795, un carcere noto per aver ospitato illustri patrioti. Un progetto malvagio e a suo modo geniale quello del penitenziario borbonico: costruito secondo i princìpi illuministici del Panopticon, prevedeva il controllo simultaneo dei prigionieri da parte di un unico guardiano posto al centro dell’edificio semicircolare. La consapevolezza di essere costantemente osservati avrebbe, secondo le teorie del filosofo Jeremy Bentham, ispiratore del progetto, inibito gli istinti malvagi dei detenuti. Ne avevo fornita un’accurata descrizione in alcune pagine del mio primo romanzo senza mai averci messo piede, e il mio sopralluogo aveva lo scopo di verificarne l’attendibilità, malgrado la sopravvenuta pubblicazione del libro ne impedisse eventuali correzioni. Uno scrupolo inutile ma necessario alla mia coscienza. 
Non era questa la sola ragione che mi aveva spinta ad andare. 

  
Durante le mie ricerche su Santo Stefano mi ero imbattuta nell’opera autobiografica di Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita, nella quale il patriota racconta la sua detenzione sull’isola, dal 1851 al 1859, e ne ero stata rapita. Credevo, a torto, di addentrarmi in noiosi resoconti storico-politici senza immaginare quanta emozione fosse dispensata in quelle pagine e quanta grandezza umana fosse rivelata in quei pensieri, basterebbe leggere l’epistolario tra Settembrini e sua moglie Gigia.  

    
Mi ero appuntata degli stralci commoventi che tuttora conservo e ogni tanto rileggo: “Io scrivo non per avere dal mondo una lode che non merito, o una pietà che m’irrita e m’offende ma perché resti ai nostri figliuoli, come utile insegnamento, la memoria delle nostre sventure. Poveri figli, che trista eredità avranno da noi! Ma pure, o mia diletta, se essi impareranno da noi come si soffre, come si crede in Dio e si benedice anche nei dolori, come si perdona a chi stoltamente ci perseguita, non saranno scontenti di noi, e ci benediranno. I figliuoli altrui sieno fortunati, i nostri sieno buoni. Se la fortuna si farà men rea, e mi concederà di rigustare le dolcezze della pace domestica, oh di quante cose io ti parlerò, e tu e i figli mi parlerete nelle ore soavi della sera! Forse allora rileggeremo L’ergastolo di Santo Stefano che ora ti mando, ed allora ti dirò con quanta fatica, con quanti timori, fra quanti strazi io scrissi. Per ora leggi, e credi che l’anima mia è con te, e co’ nostri figliuoli.”. 

  
L’ergastolo di Santo Stefano è un racconto appassionante, intriso di pathos, soprattutto all’inizio, dopo la proclamazione della condanna a morte poi commutata in ergastolo inflitta a Settembrini e a tre suoi compagni. Il resoconto di quei giorni in attesa della fine è al tempo stesso struggente e grandioso, così come la descrizione del viaggio per giungere a Santo Stefano o l’alternanza degli stati d’animo, il flusso di pensieri ora cupi ora pieni di speranza durante i lunghi anni di detenzione: “Qui il tempo è come un mare senza sponde, senza sole, senza luna, senza stelle, immenso ed uno…”.

 
E dunque, quando mi sono arrampicata su per la “stradetta erta e scabra” per raggiungere quella che Settembrini definiva “un’immensa forma di cacio”, non è al mio libro che pensavo, bensì al suo. Non erano i riscontri ai miei scritti che andavo cercando ma le tracce dei suoi, di Luigi Settembrini, che lì trascorse otto anni della sua vita. E confesso che quando vidi le feritoie “alte un palmo, strette tre dita da cui viene l’aria ed il fischio del vento e del mare” mi sono commossa pensando a quanto quello spicchio di cielo (che crudeltà gratuita quei centimetri di illusoria libertà) fosse stato foriero di pensieri, di strazi, di fantasie…

 
Io mi ero inventata tutto. Lui no. E come ben sappiamo, la realtà ha sempre la meglio. Insieme a una piccola telecamera, occhiali da sole e una borraccia, mi ero portata alcune delle oltre quattrocento lettere scritte da Settembrini durante la lunga prigionia alla moglie, ai figli, al fratello, agli amici. Avevo selezionato e stampato quelle descrittive illudendomi di identificare “la terza cella contando dal nord” seguendo quegli indizi così ben riferiti da Settembrini: “Immagina di vedere un vastissimo teatro scoperto, dipinto di giallo, con tre ordini di palchi formati da archi, che sono i tre piani delle celle dei condannati: immagina che in luogo del palcoscenico vi sia un gran muro, come una tela immensa, innanzi al quale sta lo spazzetto chiuso dalla palizzata e dal fosso…”. 

 
Eccolo davanti ai miei occhi il vastissimo teatro scoperto, bruciato dal sole e spazzato dai venti, i soli che ancora rumoreggiano. Che paura fanno i luoghi di pena svuotati, li si attraversa in silenzio, a piccoli passi, trattenendo il respiro come nelle chiese, nei templi. Le gambe tremano, gli occhi vedono quello che non c’è più. Il vuoto è pieno. 

 
Ho provato la stessa sensazione ad Auschwitz, anni fa. Anche lì cercavo qualcosa: il caseggiato dove Edith Bruck era stata tenuta prigioniera insieme alla sorella. Me ne aveva parlato così tante volte… Se i campi di concentramento evocano solo orrore, nient’altro che orrore, lo stesso non può dirsi di luoghi come Santo Stefano (penso ad altre isole, l’Asinara, la Capraia, la Gorgona…) che ospitano due opposti: il mare che circonda l’isola, la natura incontaminata, il panorama infinito, sinonimi di bellezza e libertà, convivono con bruttezza e prigionia. Un contrasto crudele che acutizza l’insensatezza della pena e il supplizio di chi è costretto a rinunciare alla libertà nel luogo che più di ogni altro la rappresenta. Qui e solo qui la bellezza contraddice la sua essenza, poiché se è possibile che il brutto contenga il bello, inconcepibile è il suo contrario. 

 
Gli ergastolani di Santo Stefano il mare non potevano vederlo: “Vediamo il sole, vediamo la luce, respiriamo aria pura, ma il mare, sempre minaccioso e agitato, possiamo solo ascoltarlo” scrive Settembrini.

 
Possiedo una grandissima fotografia in bianco e nero del penitenziario abbandonato, un regalo di compleanno a cui tengo molto. Ci poso gli occhi ogni giorno, in casa mia, e ogni giorno ci penso. 

 
E penso che sarebbe bello leggerle a voce alta quelle lettere, magari proprio lì, a Santo Stefano, magari il giorno dell’inaugurazione del centro di formazione che dovrebbe nascere dal recupero e riutilizzo del penitenziario, chiuso e abbandonato dal 1965 (previsto un investimento di 70 milioni il cui stanziamento è stato disposto dal governo Renzi e confermato dal governo Gentiloni). Sarebbe bello leggere ciò che Settembrini padre scriveva all’adorato figlio Raffaele: “Se vuoi vendicare tuo padre, affaticati a studiare, diventa uomo dabbene e virtuoso, e così lo vendicherai, perché i nemici di tuo padre ti vorrebbero vedere ignorante e malvagio. Ricordati queste tre parole: Dio, patria, onore.” E raccontare poi ciò che fece, il giovane e impulsivo Raffaele, per onorarlo e salvarlo quel padre così nobile… 

 
Un episodio degno di Enea e Anchise.

 
Raffaele aveva visto suo padre portato via a forza dai gendarmi, quando era un ragazzino ed era cresciuto pieno di rabbia e risentimento nei confronti di chi glielo aveva sottratto. Alle lettere paterne piene di saggezza rispondeva così: “Mi farò marinaio per liberarti”. E così fece.
Dopo essersi trasferito in Inghilterra sotto la protezione di Antonio Panizzi, amico fraterno del padre, Raffaele si era guadagnato i gradi di ufficiale della marina britannica. La liberazione del padre continua a ossessionarlo, non tollera l’idea di saperlo all’ergastolo e aspetta con impazienza l’occasione per entrare in azione. Dovrà attendere fino al 1859, quando re Ferdinando II, a seguito delle pressioni internazionali sollevate nei confronti della sua corte per via delle condizioni disumane in cui erano tenuti i prigionieri politici, decide di deportare in America alcuni detenuti: un esilio mascherato da atto di clemenza allo scopo di placare gli animi. Ne furono selezionati sessantasei, fra loro Luigi Settembrini, Carlo Poerio e Silvio Spaventa, imbarcati su una nave diretta a Cadice, dove un piroscafo statunitense li avrebbe in seguito trasferiti a New York.

 

Saputa la notizia Raffaele si precipita in Spagna e riesce a imbarcarsi sulla nave americana: barba posticcia e travestimento improvvisato, dichiara di essere di nazionalità cubana e si fa assumere come addetto alle cucine. Da buon partenopeo è spigliato e naturalmente portato alla recitazione. Una volta a bordo non ci mette molto a individuare suo padre, anche se non lo vede da anni: “Sono Raffaele, papà…”, gli sussurra in un orecchio, ed è probabile che queste tre parole le abbia pronunciate in napoletano. Luigi stenta a riconoscerlo, non soltanto per via del travestimento: l’ultima volta che si erano visti suo figlio era poco più di un bambino. E’ davvero una scena meravigliosa questa, degna di un grande romanzo o un grande film. I Settembrini se lo meriterebbero, sono tutti meravigliosi personaggi, madre e figlia comprese (Gigia è stata protagonista di episodi altrettanto emozionanti). Ma la scena clou è la seguente: dopo tre giorni di navigazione, Raffaele sente che è arrivato il momento giusto per cambiare il destino della sua famiglia. Scende in cabina, si spoglia degli abiti sudici da sguattero, strappa la barba finta e riveste la divisa da ufficiale, poi torna in coperta intimando al capitano di invertire la rotta verso le coste britanniche. Gli esuli naturalmente stanno tutti dalla sua parte, il capitano non può far altro che obbedire. Il 6 marzo 1859 la nave getta l’ancora nel porto di Cork, in Irlanda.

 
Dopo tredici anni trascorsi nelle carceri del Regno, Luigi Settembrini è finalmente libero. “Tutto è vuoto e niente intorno a me io non ho meco che i miei pensieri stanchi: le memorie della vita passata sono come le stelle lontane da noi milioni di milioni di miglia… intorno a me non v’è luce; io vo notando negli immensi ed opachi silenzi del niente, non sento che l’io, la mia coscienza”. 

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