Il coreografo premiato ancora
La Biennale di Venezia premia l'inafferrabile coreografo giapponese Saburo Teshigawara
Il direttore della Biennale Danza Wayne McGregor prosegue la predilezione per grandi artisti extra-europei a lungo fuori dei circuiti occidentali. Per Teshigawara è il secondo Leone d’oro alla carriera e in autunno sarà in tournée italiana
Il proverbio dice non c’è due senza tre, ma noi ci fermiamo al due. Cioè al secondo Leone d’oro alla carriera che il britannico Wayne McGregor, coreografo di fama internazionale e direttore della Biennale Danza sino al 2024, consegna oggi al giapponese Saburo Teshigawara, nato a Tokyo il 15 settembre 1953. Mostrando un buon fiuto e un’incontestabile predilezione per grandi artisti extra-europei a lungo fuori dei circuiti occidentali per qualche ragione anche scontata (Covid), McGregor, forte della fama della Biennale, li ha rimessi e li rimette indirettamente in circolazione. Il Leone d’oro alla carriera 2021 assegnato a Germaine Acogny, la mamma della danza africana e fondatrice, nei pressi di Dakar, dell’École des Sables, una delle scuole di danza più affascinanti nel mondo, è stata di recente accolta dal Festival di Spoleto con La Sagra della primavera di Pina Bausch, riallestita da accoliti della coreografa scomparsa. Una Sagra fedele, nei passi, nella struttura, ma interpretata con una tale ferocia, un’energia quasi bellica e infine con un ribollente, intrattenibile rancore contro il sacrificio umano di una vergine, perfettamente calato nelle temperie quotidiane. Rivelazione illuminante: si possono allestire pièce storiche (La Sagra di Pina risale al 1975) senza tradirle, ma direbbe James Hillman, come risposta estetica del cuore: atto di percezione del mondo – il nostro, sconvolto e turbato – con i sensi.
Anche Teshigawara sembra spartire molte riflessioni con lo psicoanalista e saggista statunitense e con altri filosofi, ma non ne ricorda i nomi. “Nel mio continuo leggere”, dice, “forse cerco solo di capire di essere parte di qualcosa”. Intanto, per cominciare dall’inizio e non dalla fine che già attende il nuovo Leone 2022 per una lunga tournée italiana da novembre a dicembre, collochiamo molto bene Saburo in “Boundary-less” (senza confini), il titolo del nuovo festival lagunare (22-31 luglio) di McGregor. Scultore, disegnatore di libri, pure calligrafo, scenografo, pedagogo, light-designer, regista: chi più del fondatore a Tokyo, nel 1985, della compagnia Karas (in italiano corvo) con Kei Miyata e la sua ormai inseparabile allieva Rihoko Sato, può dirsi refrattario a vincoli estetici, ripetizioni collaudate, esperienze già esaurite? A Venezia, durante le lezioni impartite ai giovani selezionati dalla Biennale College per “Swing”, un evento site specific in scena il 24 luglio all’Arsenale, pare abbia continuato a indirizzarli verso un metodo olistico nella loro formazione. “La danza non vale per tutto. E’ una parte della vita. Se volete fare danza vedete tutto tranne la danza stessa. Altrimenti, se vi concentrate troppo su tecnica, storia, insegnanti, la vostra creatività sarà decisamente limitata e limitante. So che vi piace ballare: fatelo! Ma i vostri interessi devono andare ben oltre questa passione”.
Se le cose stanno così – e non v’è dubbio che così stiano non solo per giovani creatori in erba – fa un certo effetto scoprire che il nostro Teshigawara si sia mostrato ieri, un giorno prima della sua “incoronazione”, in Petruška, una novità assoluta nata nel 2017, tenuta nel cassetto e danzata insieme a Rihoko con la quale ha confezionato persino l’inatteso mix musicale. Sappiamo bene quanto la carriera di Saburo sia più che variegata e flessibile, piena di coerenti svolte ad angolo retto, ma forse da lui non ci si aspettava un ritorno alla leggendaria compagnia, primi ’900, dei Ballets Russes di Sergej Djagilev dopo una sua lontana e dimenticata Sagra della primavera del 1999.
Teshigawara è soprattutto noto come ricercatore incallito. Al termine dei suoi studi nelle arti plastiche e nella danza anche accademica, era stato interprete di azioni estreme, scioccanti e del tutto solitarie. Per alcuni giorni e per otto ore al dì, si era seppellito dentro la terra umida di un montagna, con il solo capo di fuori. Ne uscì mezzo morto, quasi privo di circolazione sanguigna, ma la sfida non gli bastò: si mise a deambulare come un fachiro non su chiodi bensì su cocci di vetro. Un tale abbrutimento non aveva nulla a che fare con la ribellione del Butoh, la danza iconoclasta in voga nel Giappone dell’epoca, con i suoi cliché (ginocchia en dedant, cioè all’indentro, nudità coperte di biacca, pupille roteate per lasciare le orbite oculari vuote), piuttosto con l’idea di temprare il corpo in vista della messa a punto di “una nuova bellezza”: libera di attingere a tutte le modalità di un movimento soprattutto in grado di rendere “visibile l’invisibile”.
Rinnegando ogni legame con la tradizione antica (le pratiche del No e del Kabuki) e molto più recente del suo paese (il Butoh appunto), il poliedrico artista non si dedicò alla composizione coreografica prima di aver messo a punto una sua personale riflessione sulle componenti del movimento (spazio, tempo, energia, respiro), come in Noiject (1992), una performance allestita in un grande magazzino di Yokohama, tra piatti di ferro e musiche assordanti. Ormai era diventato un danzatore virtuoso, dall’impeccabile controllo fisico. Quando, nel 1998, comparve finalmente in occidente nella pièce Absolute Zero (metafora del “vuoto perfetto”) gli spettatori, attoniti, esultarono in un unanime “wow!”. Davanti ai loro occhi un corpo piccolo, filiforme, dalla testa glabra raggiungeva velocità vertiginose (avete in mente il bosone di Higgs?) in guizzi taglienti e rapidissimi di braccia e gambe ben radicate a terra, alternati a momenti di calma estatica. Nelle micro variazioni dei suoi nervi piuttosto che dei suoi muscoli raggiungeva una sorta di magico movimento “in assenza di movimento”, e ci disse che in quel suo iato di velocità e lentezza, eccitazione nervosa e quiete muscolare, ogni suo passo e gesto doveva aspirare a “un tempo che non era ancora arrivato”.
Giunse invece e molto in fretta, una nutrita gamma di pièce dedicate alla luce e all’ombra con la stessa vigile presenza, divisa a metà tra nevralgia “metallica” e inconscio abbandono. Titoli come Light Behind Light (2000) o Luminous (2001) dichiaravano l’ascetismo di un coreografo teso nella personale ricerca del corpo investito dalla luce e inghiottito nel suo opposto. E se Danser l’invisibile è il filmato storico (2005) che attesta questa sua personale ricerca anche filosofica (visibile e invisibile non sono solo categorie della percezione, segnala il filosofo Jean-Luc Nancy), ecco Black Water (2007), una delle sue pièce più tormentate e nere, presentata anche al Teatro alla Scala, grazie alla “Milanesiana”. Alti muri grigi collocati a raggiera e volumi intercalati da teorie di tubi sottili, vi sagomavano il profilo di un’astratta città quasi espressionista, come inghiottita nelle viscere della terra o sprofondata in abissi dove non filtravano che dardi di luce e qualche improvvisa vampata di bianco.
Black Water non tradiva il suo titolo: l’acqua idealmente sospingeva le braccia illuminate come i volti e le mani dei tre protagonisti di Karas, la sua compagnia, e li cullava facendo sì che si contorcessero come furenti mulinelli. Una fisicità svaporante, priva di dinamica, investiva il coreografo/danzatore e la sua flessuosissima partner Rihoko, come se i loro corpi fossero scontornati nell’acqua, filamenti che correvano all’infinito nel buio più buio della notte. L’inquietudine onirica dell’insieme rammentava i quadri di Heinrich Füssli e prospettava una bellezza insidiata da spiriti e demoni forse appartenenti alla tradizione scintoista. Non per nulla l’inizio della pièce era affidato a una strana creatura impellicciata che cresceva per poi languidamente perire a terra, e rialzarsi trionfante.
Ci sarebbe da credere che il Leone d’oro alla carriera 2022 sia un inconfessato Ulisse tra tribolati morti dell’Ade. Ma non è così. “Vita e morte, amore e lotta… sono da sempre attratto da tutto ciò che concerne l’esistenza: il corpo (inclusa la percezione), la mente (inclusa la volontà), la gravità, l’aria, la luce, la musica dalla quale c’è sempre molto da imparare”, afferma l’artista. In Bones in Pages (2004) Saburo se ne stava sì seduto a un tavolino, affondando di tanto in tanto il suo cranio rasato in una pericolosa distesa di vetri rotti, a lui tanto familiari, ma danzava anche in una sorta di Biblioteca di Babele di Jorge Luis Borges, tra libri ben incolonnati e qualche pagina che volava via per poi imbastire un gioioso “duetto di natura” con un corvo vero (simbolo di Karas). In Green, spettacolo nato nel 2004 a Civitanova Danza, festival marchigiano a lui particolarmente caro, annetteva nel suo spazio scenico capre, mucche, conigli e anatre. Scappando dalla sterile cultura di plastica, Teshigawara anelava beatamente al soffio caldo della carne animale.
Alla fine di un percorso, in cui abbiamo tralasciato un buon numero di spettacoli, installazioni, video, film, coreografie create per altre compagnie e soprattutto regie d’opera cui Saburo si è da tempo prestato, come si giunge a Petruška? Teshigawara non è fuggito da un titolo famoso, conosciuto persino da un pubblico di non esperti, ma piuttosto dalla sua trama. L’originale libretto, elaborato in quattro quadri, da Igor’ Stravinskij e dallo scenografo-costumista Aleksandr Benois, ed allestito nel 1911 da Michail Fokin, narra la triste vicenda di un burattino (al debutto interpretato dal grande Vaslav Nijinskij) che si esibisce in un teatrino nella piazza dell’Ammiragliato di San Pietroburgo, durante il carnevale del 1830. A differenza della Ballerina e del Moro, i suoi due colleghi, Petruška è solo e maltrattato. Non riesce a farsi amare dalla danzatrice, il cui cuore batte per il Moro, un bellimbusto decerebrato, ed è disprezzato dal Ciarlatano, il suo padrone, per la sua goffaggine e le continue lamentele. Sfidando il suo rivale in amore, lo Sfortunato finisce ucciso dal Gradasso esotico con un violento colpo di scimitarra, gettando un urlo così straziante e umano da far accorrere la folla sotto la neve di quel tragico carnevale. Tutti lo credono un uomo ucciso, ma interrogato dalla polizia, il Ciarlatano dimostra che si trattava solo di un pupazzo. La gente se ne va rincuorata; quand’ecco che d’improvviso squilla una tromba e sul tetto del teatrino ricompare Petruška. E’ lo spettro del ribelle che non si arrende contro le ingiustizie, del rivoluzionario indomito di cui si può temere l’immortalità.
Da tutto ciò Teshigawara ha tratto un duetto: forse per penetrarne gli intenti, dobbiamo anzitutto rinunciare ai giochi di soggetto-oggetto, interno-esterno, maschile-femminile, immanenza-trascendenza, mente-corpo: insomma a quella gimkana di opposti che ci sembrava lapalissiana, a esempio nei suoi lavori su luce-ombra. Qui l’emozione trattenuta di quelle “sacre reliquie” è stata infranta ed è riuscita, grazie al geniale artista “a fluire nel mondo” (Hillman) restituendoci ciò che gli abbiamo sottratto. Paure, angosce, malattie, ripetuti e beckettiani fallimenti, catastrofi: tutti crolli che siamo abituati a considerare fatalistiche disgrazie esterne al nostro “io” ma che invece lo intridono nel profondo. Come? Lui è Petruška, una bambola, e lei, la Ballerina (la Sato) pure. I due, però formano un’unica entità: uomo e donna intrecciati, quasi intrisi l’uno nell’altro, rivelano il movimento dell’amore che palpita dentro un unico sé. Tuttavia questo sentimento si trasforma ben presto in un violento vuoto interiore. Grazie allo scompiglio determinato da questo feroce nulla, una bambola, ci dice Saburo, “può aspirare ad avvicinarsi al limite della vita umana: ecco perché ho creato un duetto che di due creature ne fa una”.
Nel buio della scena brillano gli eleganti costumi disegnati dal coreografo/regista e le luci cangianti scambiano vita e morte: il blu che squilla quando un’ardente vita rossa pare esaurirsi. Teshigawara non ha rinunciato a trovare una bellezza “desiderata ma non visibile” nel viluppo della musica. Impresa più che ardua, che gli era riuscita nell’afflato wagneriano di un indimenticabile Tristan und Isolde (2017), ma che parrebbe ripetersi ora entro le note impervie, dissonanti e spesso grottesche di Stravinskij, qui addirittura accostate a lacerti di Nino Rota, composti per Federico Fellini (pure La strada!). Ecco perché la pièce, dell’abituale lunghezza di 35 minuti, è stata allungata quasi del doppio, ma senza didascalie o un qualunque, inutile, happy ending. Petruška non può scappare né dalla vita, né dalla morte; vive nell’impossibilità di cui cerca di superare i limiti grazie all’amore.
A questa sua assoluta contraddizione, Saburo dà una forma danzante in cui vincono dolore e ironia. “Il primo lo sentiamo dentro gli occhi della nostra disperazione di fronte a esseri viventi o meno e percepiamo la bellezza del loro movimento misterioso che va oltre la nostra abituale comprensione. Ma esiste anche lo sconforto che dà forza, si trova all’origine del desiderio di gioia, e partorisce la delusione”. L’ironia, invece, sottolinea la capacità dell’essere inanimato di poter morire e risorgere sinché vuole. Torniamo, senza fare confusione tra burattini, marionette e bambole, ad Heinrich Von Kleist e al suo Aufsatz üűber das Marionettentheater (al riguardo, un nostro pezzo del 5 marzo 2022)? Certamente. Un essere inorganico, costruito dall’uomo, contiene il distillato della pura umanità. Desiderarlo come si vede nel nuovo Petruška è una lode all’assenza. “L’esistenza assente è più forte di se stessa, dunque è un grande microscopio, o una lente per vedere più chiaramente”, dichiara il coreografo/danzatore e filosofo Teshigawara. Abbandonato lo spettro del primo balletto pre-espressionista della storia, che risorge come l’Araba Fenice dalle sue ceneri contro ingiustizie e mancanza di libertà, Saburo assicura che avendo creato e mostrato Petruška cinque anni or sono, nel Karas Apparatus, il suo spazio di lavoro a Tokyo, non poteva immaginare contraddizioni e conflitti odierni. “Ma questi appartengono ad ogni era dell’umanità”, e conclude “credo sia l’ineluttabile storia degli esseri umani”.