La recensione
A Parigi, con Marangoni e Perec
Due testi per provare a spiegare ed esaurire il mistero Parigi "meraviglioso blocco d’appunti che si può ora sfogliare con e senza mistero ora scrivere"
Non si sa quale scegliere fra le due definizioni di “autofiction” che hanno goduto negli ultimi anni di maggiore successo – quella di Philippe Lejeune e quella di Gerard Genette –, leggendo il volume di Eleonora Marangoni, Paris, s’il vous plaît (Einaudi, Torino 2022, pp. 208, euro 18,50.). Se troppo accomodante sembra l’accezione di Lejeune, che ambisce a coprire «tutto lo spazio tra un’autobiografia che non vuole dire il suo nome e una finzione che non vuole separarsi dal suo autore», quanto si legge in Finzione e dizione di Genette si rivela davvero troppo caustico, nell’attribuire all’autofiction il significato d’una «autobiografia che si vergogna di sé». Tanto più se, come nel caso dell’opera della Marangoni, la verecondia non ha bisogno d’alcun paravento: semplicemente perché non c’è, né nella forma che «porta al peccato», né in quella che è «gloria e grazia» (Eccli, 4,21). Piuttosto, a sovrabbondare è un sentore di mignon, di “dolce, gentile, amabile”, in una parola, di “carino”, termine che da semplice diminutivo ha nel tempo assunto il significato di «un’espressione giocosa (…) superficiale, affascinante, deliberatamente rilassata» – secondo quanto ha di recente osservato Simon May – ma che, in maniera spesso impercettibile, degrada verso il kitsch, in quanto parodia dell’esperienza estetica.
Sebbene non si possano far rientrare le pagine del diario parigino dell’autrice in quel “Super-kitsch costante” che Edoardo Sanguineti vedeva rifulgere nello Specchio delle mie brame di Arbasino, ché, a differenza di quanto accada in quest’ultimo, l’artefazione, nella scrittrice romana, non avviene affatto in forza di un sublime-pedantesco o d’un falsetto tassonomizzante o affastellante, bensì malgré soi.
È infatti inavvertitamente che la scrittura della Marangoni declina verso il kitsch, toccando l’acme nel capitolo “A Parigi per l’eleganza”, in cui si diffonde, con ridondanze, ambagi e minuziosi resoconti delle migliori valigerie della Ville Lumière, per illustrare la ricerca del «Trolley Meno Peggio». Sono pagine che dopo molto oscillare, talora interrotto da periegetiche segnalazioni da Guide Routard («il BHV è il grande magazzino di fronte al Comune »), fra il mémoire e il saggio, dichiarano schiettamente la loro matrice post-moderna. La quale si rivela anzitutto nella tendenza a far procedere la diegesi narrativa attraverso l’azione compiaciuta del riferimento storico (gli sventramenti promossi da Haussmann, le fotografie di Mareville, la nascita dei grandi magazzini de La Samaritaine, ecc.), finendo per dare corpo ad un pastiche, ad un’imitazione a cui fa difetto la percezione della stessa possibilità di esistenza di una norma o di una convenzione dalla quale discostarsi. Mentre, in maniera ora più ora meno evidente, si dispiega una messa in questione della storicità come successione, sia in relazione alle vicende storiche che a quelle private dell’autrice.
Eleonora Marangoni, benché possa sembrare pronta a condividere, anche in ragione dei suoi trascorsi proustiani e di certe esplicite sintonie con i Passages benjaminiani, quanto andasse dichiarando Roger Caillois in Parigi, un apprendistato: «il ricordo d’una città deve diventare inseparabile dal proprio sé attraverso una lenta scoperta che arricchisce quasi l’intera esistenza», non si mostra particolarmente incline ad accogliere le risorse stilistiche offerte dalla sottrazione allusiva (pure fondamentale nel fare, d’una città, il polo d’una rete metonimica, come esemplarmente mostra, con Roma, Franco Cordelli in Tao 48), né, tanto meno, dall’épuisement.
Eppure, parlando della Tour Saint-Jacques, a lungo sottratta allo sguardo da interminabili lavori di restauro, si sarebbe potuto sperare che in Paris, s’il vous plaît, cui certo qualcosa gli deve, la lezione stilistica di Perec avesse fatto maggiore breccia, non tanto per il proposito, in fondo banale, di inventariare, fotografare, raccontare Parigi, quanto per la necessità di dover ammettere che all’inizio di ogni descrizione «c’è solo opacità, nomi che non evocano niente». Lo stile della Marangoni, invece, vuole, delle cose, sempre far intravedere un senso, «pieno di luce e di bianco», anche là dove sarebbe preferibile provare a non voler più sentire né vedere nulla, se non – come scrive Perec – «la solitudine, l’indifferenza, la pazienza, il silenzio», per imparare la «trasparenza, l’immobilità, l’inesistenza (…), ad esser un’ombra e guardare gli uomini come se fossero pietre» e il mondo come l’adito in cui non succede nulla, «se non lo scorrere del tempo, delle persone, delle auto e delle nuvole».
Questo tentativo di “esaurire” Parigi, da Perec a lungo coltivato e solo in parte realizzato, ha trovato ora, con la pubblicazione, presso Seuil, di Lieux, la propria epitome. Opera ingegnosissima tanto quanto velleitaria, mostruosa, ma esaltante, Lieux avrebbe originariamente dovuto intitolarsi Loci soli o Soli loci, e basarsi sulla descrizione di dodici luoghi parigini, legati a ricordi, avvenimenti o momenti importanti della vita dello scrittore. Ogni mese, prevedeva il progetto avviato nel 1969 e abbandonato nel 1975, si sarebbero dovuti descrivere due luoghi: una volta, in loco, trascrivendo ciò che si vedesse nel modo più neutro possibile; un’altra, altrove, ritraendo quel medesimo posto a memoria, rievocando i ricordi ad esso legati, la gente conosciutavi, ecc. Ogni anno quest’esercizio si sarebbe dovuto ripetere, in un mese diverso, alternando la sequenza dei luoghi, secondo un calcolo ispirato alla regola matematica del biquadrato latino ortogonale.
Priva di un vero e proprio scopo, quest’impresa – dichiara Perec stesso a Maurice Nadeau – avrebbe dovuto consentire di osservare sinotticamente l’invecchiamento dei luoghi, della scrittura, dei ricordi, in modo da confondere tempo ritrovato e tempo perduto: «il tempo si fonde al progetto, ne costituisce la struttura e la regola; il libro non è più restituzione d’un tempo passato, ma misura del tempo che scorre» Il tempo della scrittura, che altre esperienze letterarie avevano ora ignorato ora impiegato solo in modo arbitrario, come accade ne L’impiego del tempo di Butor, o lasciato agire solo accanto al libro, qui diventa l’asse portante. Vanno in tal modo percorrendosi i reticoli stradali che da Place de la Contrescarpe si snodano fino alla Rue Villin, o corrono da Rue Saint Honoré all’Île Saint Louis, o ancora risalgono l’Avenue Junot per sboccare in Place d’Italie. Perec guarda ciò che vi accade, il quotidiano, l’infra-ordinario, il rumore di fondo, fedele all’urgenza di interrogare l’abituale, di «interrogare quello che ci sembra talmente evidente da averne dimenticata l’origine». Accanto a questo tentativo di dire il veduto, si pone quello suscitato dai ricordi, sovente tristi, dolorosi, inquieti, ossessivi. «I luoghi scelti mi restano attaccati e non mi lasciano più»; nondimeno – scrive Perec – devo di anno in anno imparare a smarrirli e a trovarli di nuovo, dimenticando ciò che ho scritto, così da sorprenderli, sorprendendomi.
I testi che compongono Lieux avvertono tuttavia, col passare del tempo, sempre più flebilmente la fiducia nella sorpresa dell’evento. Perec, tuttavia, come prova Tentativo di esaurimento di un luogo parigino, non sembra voler rinunciare al rischio di perdersi per Parigi, meraviglioso blocco d’appunti che si può ora sfogliare con e senza mistero ora scrivere, cercando meticolosamente di trattenere qualcosa, per farla sopravvivere, prima ch’essa sprofondi in quel «silenzio d’eternità», che per primo Baudelaire presentì distendersi sempre di più ad ogni secolo sulla città, inebriandone coloro che vi risiedono, che vi si sono recati, che se ne ricordano, e soprattutto che la raccontano, simile ad un piacere vaporoso e sfuggente, «come una silfide in fondo ad una quinta di teatro».