Patricia Lockwood con "Nessuno ne parla" parla dei social dai social
La scrittrice, diventata celebre su Twitter, trasforma in romanzo l'esperienza, ormai comune a tutti, di stare sempre collegati in rete
E’ più o meno dalla prima epoca dei blog – qualcuno ricorda Splinder? – che ci si chiede se possa essere degnamente sviluppata una “letteratura di Internet”; domanda che, come è logico, si ripropone ogni volta che Internet genera un nuovo metodo di espressione testuale. Con i blog era relativamente facile: in fin dei conti erano diari o raccolte di epigrammi, e le forme più letterarie assunte da essi replicavano tali antichi modelli. Poi però arrivarono MySpace, Facebook, Twitter, Instagram, TikTok… Ora, che non possa esistere una “letteratura TikTok” si può già affermare, basandosi il social su brevi video (in genere di balletti), e anche Instagram può essere escluso, così come il defunto MySpace, la cui possibilità di espressione testuale si riduceva a certi oscuri blog interni ai profili che nessuno leggeva. Diverso il discorso per Facebook e Twitter. I testi brevi o brevissimi propri di questi social sembravano chiedere plausibili declinazioni letterarie.
Ma la letteratura, a differenza di tutte le pur variegate teste dell’idra Internet, è un medium lento. Ci mette molto ad assorbire, molto a elaborare e molto a produrre – al netto degli instant book, che infatti scompaiono subito dagli scaffali e dalla memoria dei lettori. Mille sperimentazioni dopo, e a ventuno anni dall’apertura del primo blog su Splinder (e venticinque da quella del primo in assoluto, negli USA (la questione di quale sia il primissimo è storicamente controversa, ma di certo si era nel 1997), ecco che approda sugli scaffali un plausibile candidato al titolo di primo romanzo valido dell’era social.
Il titolo è Nessuno ne parla, l’editore Mondadori, la traduttrice Manuela Faimali e l’autrice Patricia Lockwood, un nome che potrebbe dire poco al grosso dei lettori italiani, ma che non è ignoto a chi segue da vicino le vicende dell’Internet letterario. Se la protagonista di Nessuno ne parla è una “twitstar”, lo è anche la sua autrice: Lockwood vanta 110.000 follower sulla piattaforma bramata da Elon Musk, e raggiunse la sua prima fama con un celebre tweet (oggetto, va da sé, di innumerevoli retweet), in cui chiedeva alla Paris Review se, in fin dei conti, Parigi fosse bella o meno. Ma non solo: nel 2013, il suo poema in prosa Rape Joke divenne virale, portandola non molto tempo dopo a esordire anche su carta col memoir Priestdaddy (anch’esso pubblicato da Mondadori, nella collana Strade Blu, e passato inosservato da noi).
Il romanzo era dunque il punto d’arrivo inevitabile per una simile predestinata; ora, per quanto sospetto sia, sempre, “l’atteso romanzo della star dei social” (o “il primo romanzo dell’acclamata memorialista”, o peggio che mai “la prova romanzesca della poetessa virale”), tocca ammettere che Lockwood colpisce nel segno, trovando una felice sintesi formale e stilistica capace di riprodurre non soltanto le modalità espressive, ma anche le modalità ricettive di Internet, e il romanzo, che parla di una donna che è sempre online, ci rende perfettamente la sua esperienza, senza per questo rinunciare alla vicenda (legittimo dubbio che può sorgere nel lettore tradizionalista dopo aver notato che lo stile inusuale delle prime pagine continua per tutto il libro). C’è di mezzo, infatti, una tragedia familiare, ma questo serva solo a rassicurare chi a un romanzo chiede (e giustamente) vicenda: quello che fa di Nessuno ne parla un grande libro è la capacità di rendere, finalmente, in forma letteraria, l’esperienza comune a tutti noi, nostra croce e delizia (più croce che delizia, amiamo dire e pensare, eppure... quanto ci stiamo!), dello stare online.