versi arabi
La Sicilia di Ibn Jubayr, dove l'occidente è così simile al mondo dell'islam
Il viaggio letterario (e non) del poeta musulmano è reso magico dalla sua scrittura, che rende avvincente il tragitto in mare e le descrizioni immaginifiche dell'isola italiana
Non era confortevole viaggiare ai tempi di Ibn Jubayr, scrittore musulmano proveniente da al Andalus, l’attuale penisola iberica. Viaggiare costava fatica, eppure per i musulmani restava un obbligo, ricorda Giovanna Calasso, curatrice di questo “Viaggio in Sicilia” da lui redatto nel 1185. “Al tempo in cui Ibn Jubayr visita la Sicilia, nel mondo islamico si viaggia molto, per motivi religiosi, di studio, di commercio. Quello di Ibn Jubayr è il viaggio di un musulmano osservante partito per adempiere a uno dei cinque obblighi del culto: il pellegrinaggio alla Mecca”. Ed è proprio da questo pellegrinaggio che egli fa ritorno. La Sicilia è una tappa intermedia, prima del rientro in Spagna.
I viaggi sono complicati, sfiancanti. Promettono sorprese e celano meraviglie. Meritano di essere raccontati. Questo in Sicilia è l’estratto di un periplo ben più lungo, intitolato “Viaggio in Ispagna, Sicilia, Siria e Palestina, Mesopotamia, Arabia, Egitto”, pubblicato in Italia nel 1906, a cura di Celestino Schiaparelli, illustre arabista. Giovanna Calasso l’ha rivisto per questa nuova edizione adelphiana. La letteratura araba lo conosce familiarmente come Riḥla. Ma per l’autore, Ibn Jubayr, resta la “relazione delle peripezie che sopravvengono nei viaggi”. E che peripezie! Attende presso Acri (costa siriana) il vento favorevole per salpare, salendo e scendendo per giorni dalla nave che lo ospita. Le vele si gonfiano il 18 ottobre 1184. Ma il periodo dell’anno è sfavorevole.
Il vento fa le bizze. Così il viaggio, che dovrebbe durare una quindicina di giorni, si dilata per ben due mesi, inanellando una sequenza di burrasche, con venti volubili o furiosi, capaci di spezzare l’albero maestro; e poi grandine, onde spropositate. Il tutto intervallato da una lunga e statica bonaccia. La scrittura di Ibn Jubayr rende mirabilmente quest’avventura per mare, che si conclude con un naufragio sulle coste di Messina.
Non male come inizio. Almeno, il lungo protrarsi del viaggio permette di conoscere il resto dei passeggeri: cristiani che rientrano da Gerusalemme e viaggiano occupando un’altra zona della nave. Ibn Jubayr li descrive, ne coglie gesti, azioni.
Diversa si presenterà la situazione in Sicilia. Le pagine rimandano una sorta di fascino per questa terra sconosciuta, lussureggiante, fertile, dove cristiani e musulmani riescono a convivere. Da Messina fino a Trapani, lo scrittore descrive le sue meraviglie, i costumi degli abitanti, gli eunuchi, i rapporti di forza tra gli abitanti. La Sicilia, ricordiamolo, per circa duecento anni era stata sotto il dominio musulmano. L’occhio di Ibn Jubayr diffida però presto dei nuovi regnanti, fino a farsi astioso quando sosta a Trapani. Nei giorni d’attesa, col mare in burrasca, giunge alla conclusione che la pacificazione tra cristiani e musulmani nasconda una vera forma di oppressione, o il subdolo tentativo di imporre conversioni.
Insomma, gli elogi, gli occhi rapiti, sfumano e disperdono in filigrana un atteggiamento ambivalente, quasi scisso, che emerge nelle numerosissime eulogie che ritmano le sue descrizioni, e spezzano il ritmo della narrazione, inserendovi continue invocazioni a Dio. Nei corsivi è tutto un caldeggiare castighi, annientamenti, sconfitte per i cristiani e il loro re, Guglielmo II. Si coglie qui il filo nascosto del libro, ben colto da Giovanna Calasso: “Il timore di essere ‘sedotto’ dalle somiglianze con il mondo dell’islam che inaspettatamente l’isola, il suo sovrano e i suoi abitanti infedeli mettono sotto gli occhi del viaggiatore”. Non bisogna cedere alle tentazioni della Terra Grande: l’occidente.