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Il ricordo di Antonio Pennacchi, memorie e aneddoti di un'amicizia

Paolo Nori

Non avere più il compagno con cui condividere un racconto e le proprie miserie. Tra libri, chiacchiere, politica e riflessioni: la storia di una mancanza

L’anno scorso, il 3 agosto, sono partito per Champoluc per partecipare alla rassegna “Monterosa racconta” dove avrei parlato di Sanguina ancora, un romanzo su Dostoevskij e, intanto che andavo, mi è arrivato un messaggio che mi avvisava che era morto Antonio Pennacchi. Nel romanzo che dovevo presentare c’è un lungo paragrafo che si intitola “Il ruolo di Antonio Pennacchi nella storia della mia famiglia”. E’ passato un anno. La prima volta che ho visto Pennacchi, a Bologna, a una presentazione di un numero di Limes, lui ha litigato con uno scrittore che era sul palco con lui, e mi è rimasto molto simpatico. Gli piaceva, litigare. In Camerata Neandertal ha scritto “Non mi diverto a scrivere. Mi diverto a leggere e studiare, e soprattutto ad andare in giro per Latina a litigare con quelli che incontro”. 

 

Qualche mese dopo, ero nella mia cucina, mi è suonato il telefono, era Antonio Pennacchi che, dopo essersi presentato, mi ha detto delle cose che avrebbero avuto un ruolo determinante nella storia della mia famiglia. Ci siamo poi visti, qualche volta, ed ero così contento, quando ero con Pennacchi. Io, di carattere, sono un bastiancontrario, mi piace contraddire i miei interlocutori, ma con Pennacchi stavo attento. Mi sembrava uno con il quale era meglio stare attenti. Mi è capitato poi di scrivere dei suoi libri, della seconda parte di Canale Mussolini, per esempio, nella quale si trovano delle frasi come: “Un fiòlo l’è senpre una benedision. Dove che manzemo in sedici, mangeremo in diciassette”.

 

La prosa di Pennacchi a me ricorda le poesie di Giacomo Noventa, che ha scritto: “Parché scrivo in dialeto…? / Dante, Petrarca e quel dai Diese Giorni / Gà pur scrito in toscan. // Seguo l’esempio”. Anche Pennacchi mi sembra seguisse l’esempio di Dante, che nel De vulgari eloquentia scrive che “la lingua volgare è quella che, senza bisogno di alcuna regola, si apprende imitando la nutrice. Abbiamo poi anche, oltre a questa, una seconda lingua che fu chiamata dai Romani “gramatica”. “La più nobile di queste due lingue – continua Dante – è il volgare, sia perché fu la prima a essere usata dal genere umano, sia perché tutto il mondo ne fruisce, sia perché ci è naturale, mentre l’altra è artificiale. Proprio di questa lingua più nobile è nostro intento trattare”, conclude Dante, e sembra incredibile che per secoli i due “più nobile” di Dante, “nobilior”, nell’originale latino, sono diventati, nelle edizioni a stampa, “più mobile”, “mobilior”: i filologi e i grammatici non potevano concepire il fatto che Dante considerasse la lingua volgare, la lingua parlata, il dialetto, una lingua più nobile della lingua scritta, codificata e grammaticata della quale loro erano i depositari. 

 

L’impressione che si ha a leggere i romanzi di Pennacchi, grazie anche all’uso di quella lingua più nobile, è di essere di fronte a una continua invenzione, a una forma nuova che dà vita a un nuovo contenuto. Un solo esempio: una raccolta di saggi intitolata L’autobus di Stalin e altri scritti (il primo saggio parla di Stalin, il secondo della moglie di Gianfranco Fini) nella quale si legge: “Tutti dicono: ‘Quanta violenza che c’è in giro, quanta gente che s’ammazza per niente’. Io invece, fatti i conti di quanti girano e di quanti giorni non succede nulla mi meraviglio di quanto pochi siano quelli che uccidono. M’aspetterei di più. E’ da lì che prende corpo il mio ottimismo e si ritempra la fiducia nelle umane sorti e progressive: ‘Ma tu guarda quanta gente c’è che non ammazza’, perché non c’è nessuno, in mezzo al traffico, che non abbia detto almeno, una volta nella vita: ‘Se ero un uomo vero lo ammazzavo; bisognerebbe proprio girare armati’. Io quasi tutti i giorni. Anzi, io ci giro. Ho sempre il cric a portata di mano”. 

 

Quel libro che andavo a presentare l’anno scorso finisce alla veglia funebre di Dostoevskij, quando comunicano alla moglie, Anna Grigor’evna, che a nome dello zar le è stata assegnata una pensione statale e che i suoi figli saranno educati a spese dello stato. Lei allora si alza tutta contenta per dare la bella notizia a suo marito. Che è morto. “In quel momento – dice Anna Grigor’evna – mi sono resa conto per la prima volta che da lì in poi avrei dovuto vivere da sola, e che non avevo più un amico con cui poter condividere la gioia e il dolore”.

Credo che siamo stati in molti, in questo anno, a pensare “Adesso questa cosa la racconto a Pennacchi”, e ad accorgerci che no, non avevamo più un amico con cui condividere le nostre miserie. 

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