Agosto con nobil giuoco - 2
L'epilogo inaspettato delle olimpiadi di scacchi e la partita che ha fatto la storia
Battuti i ragazzi terribili di India 2, la vittoria va all'Uzbekistan. Sconfitta storica? Niente in confronto a quella di Fischer contro Spassky, prima della memorabile rivincita. ma quella era Guerra fredda
Un podio così era difficile pronosticarlo: oro all’Uzbekistan, unico team a non perdere neanche un incontro, argento all’Armenia, bronzo alla seconda squadra dell’India. La quarantaquattresima Olimpiade di scacchi regala un risultato a sorpresa: non una delle prime dieci squadre del ranking mondiale va a medaglie. Gli Usa, favoriti della vigilia, arrivano solo quinti, India 1 quarta, la Norvegia del campione del mondo Carlsen, numero 3 del tabellone, sprofonda addirittura al cinquantanovesimo posto. Nel femminile, vince invece l’Ucraina, tra le favorite della vigilia, davanti a Georgia e India. L’Italia chiude con un 47esimo posto decisamente inferiore alle aspettative. Meglio hanno fatto le ragazze, che hanno chiuso al 29esimo posto.
L’Italia chiude con un 47esimo posto decisamente inferiore alle aspettative. Meglio hanno fatto le ragazze
Lo scontro che ha deciso le Olimpiadi, nell’Open, è avvenuto al penultimo turno: gli uzbeki avevano dinanzi i ragazzini terribili di India 2. Ora, potete sapere molto poco di scacchi, e pure dell’Uzbekistan: è legittimo. Wikipedia dice che l’Uzbekistan è noto per le moschee, i mausolei e i luoghi legati all’antica via della seta, Vecchioni dice che Samarcanda non è poi così lontana: che altro? Ma guardate gli ultimi minuti della sfida che si è consumata in prima scacchiera. Col Bianco, l’indiano Gukesh D., che a fine torneo vincerà la medaglia d’oro individuale come miglior prima scacchiera, è a caccia dell’ennesimo scalpo, dopo la mostruosa striscia di otto vittorie consecutive e un solo pareggio, strappatogli al nono turno da uno dei giocatori più esperti del circuito, l’azero Mamedyarov (numero 10 al mondo). Dinanzi ha Nodirbek Abdusattarov, giovanissimo anche lui – ha solo 17 anni – e già campione del mondo nella specialità rapid, nel 2021. Con una vittoria di Gukesh D, India 2 scavalcherebbe l‘Uzbekistan nella classifica generale e punterebbe al titolo, ma anche la patta sarebbe sufficiente per il successo di squadra. A Gukesh D., però, non basta. E’ entrato nel finale di partita con un vantaggio abbastanza netto, che a gioco corretto dovrebbe bastare a portare a casa il punto intero. Ma è un finale difficile: quando ci sono le Regine di mezzo, c’è sempre molto da calcolare, e una sarabanda di scacchi al Re può complicare le cose. Ancora più difficile, sul piano psicologico, è capire quando il vantaggio è ormai sfumato e non è più il caso di forzare. Per giunta, siamo quasi alla fine di una lunga, faticosissima competizione, è stata superata la quinta ora di gioco e i due scacchisti hanno pochi secondi sull’orologio. Nel silenzio della sala, sotto lo sguardo impietrito dei suoi compagni di squadra, Gukesh D., che ha già commesso qualche piccola imprecisione, va incontro all’errore fatale. Un errore banale, stupido, di quelli che commettono i giocatori di circolo, non, di solito, i campioni del suo livello. A volte, però, succede: Gukesh D. porta il Cavallo in f3 e il Nero dà scacco al Re con la Donna in b7: la cattura del Cavallo, alla mossa successiva, è inevitabile.
Gukesh D. piega il capo e non lo alza più: la partita è persa, irrimediabilmente persa, e l’indiano non ha neanche la forza di rialzare lo sguardo e abbandonare. I secondi scorrono, Gukesh D. ha la testa fra le mani, nel più assoluto sconforto, e non muove, non può fare più nulla; l’avversario, rimasto per tutto il tempo impassibile, senza muovere un solo muscolo del volto segnala gelidamente all’arbitro quando il tempo è finito, the game is over, il match di squadra si chiude in parità e l’Uzbekistan, con la vittoria nell’ultimo turno, si laurea per la prima volta campione olimpico. Contro ogni pronostico.
Fischer, col Nero, optò per le soluzioni più taglienti, più ricche di possibilità tattiche. Voleva vincere a tutti i costi
Di vicende come queste, di sfide accanite e scontri memorabili, di momenti di altissima tensione e impossibili parossisismi emotivi, la storia delle Olimpiadi è piena.
Ne volete un’altra? Vi racconto un’altra sconfitta storica: quella di Bobby Fischer contro Boris Spassky, nel settembre 1970, a Siegen, in Germania Ovest. Due anni dopo i due si giocheranno il mondiale, e sarà il match del secolo: quello che ogni appassionato di scacchi ricorda, quello che tutto il mondo seguì con febbrile entusiasmo, quello che in Italia andò addirittura in onda sui canali Rai con le telecronache quasi-calcistiche di Nando Martellini e Bruno Pizzul; quello che scomodò persino l’immarcescibile Henry Kissinger, allora segretario di stato del presidente Nixon, impegnato a convincere Fischer a smettere di fare le bizze e a giocare (“è il peggior giocatore del mondo di scacchi che chiama il migliore” lo lusingò al telefono, e funzionò), mentre dall’altra mobilitò frotte di solerti funzionari del ministero dello Sport e molti agenti del Kgb, perché nulla doveva essere lasciato al caso. Quello, infine, che per la prima volta laureò campione del mondo un americano, capace da solo di sconfiggere la potente macchina dell’organizzazione sovietica.
Due anni prima del match la sfida era già nell’aria: Spassky era il campione del mondo in carica, Fischer il predestinato. Nel mese di giugno, impegnato nel ciclo di incontro fra i candidati al titolo, Fischer aveva stracciato il russo Mark Taimanov, con un incredibile 6 a 0 (più tardi avrebbe fatto lo stesso con il danese Bent Larsen, per poi superare con facilità anche l’armeno Tigran Petrosian e conquistare il diritto di battersi per la corona mondiale). Grande era dunque l’attesa, in quella XIX Olimpiade di scacchi, e nella Siegenlandhall si erano presentati in tremila per assistere allo scontro fra Fischer e Spassky: biglietti esauriti, tour estatici attorno alla scacchiera per i più fortunati, e tutti gli altri pigiati nel foyer dinanzi a quattro scacchiere allestite in tutta fretta per permettere di seguire la partita. Che non deluse le attese: dopo le prime mosse di apertura, Fischer, col Nero, optò per le soluzioni più taglienti, più ricche di possibilità tattiche. Voleva vincere, cavolo se voleva vincere: sarebbe stata la sua prima vittoria contro il campione del mondo. Sulla scacchiera prese presto l’iniziativa ma compì qualche errore di sopravvalutazione. Spassky mantenne i nervi saldi e la lucidità necessaria per approfittarne, e concluse la partita in bello stile, con una mossa spettacolare, che si meritò l’uragano di applausi del pubblico. Al termine, un Fischer incazzatissimo rimase per quasi dieci minuti nella sala da gioco senza rivolgere la parola ad alcuno; il tronfio ambasciatore sovietico, che aveva assistito alla partita, chiese soddisfatto agli altri grandi maestri presenti di firmare la scacchiera sulla quale si era consumato l’epico scontro; Fischer, uno che giocava per mandare in pezzi l’ego degli avversari, ovviamente si rifiutò. L’Unione Sovietica vinse le Olimpiadi e Spassky la medaglia individuale come miglior prima scacchiera del torneo, ma fu il suo canto del cigno: cederà lo scettro due anni dopo, a Reykjavík, davanti all’americano questa volta raggiante, felice, trionfante.
A Reykjavík, nell’estate ’72, le continue richieste di Fischer sulla borsa in palio, la sede, la sala, le luci, le sedie…
Poi tutto finì. Le vittorie, il successo, la gloria. La parabola si era compiuta: arrivato in cima al mondo, Bobby Fischer smise di giocare. Sparì. E ora io non so cosa raccontare, se il match che giusto cinquant’anni fa, nell’estate del 1972, fu la massima espressione sportiva del confronto geopolitico fra Est e Ovest – la Guerra fredda combattuta su una scacchiera – e calamitò per questo l’attenzione della stampa mondiale, oppure l’altro Fischer, quello che litigò con la Federazione internazionale, quello che si rifiutò di difendere il titolo tre anni dopo, contro un altro sovietico, Anatolj Karpov, e non partecipò più ad alcuna competizione ufficiale. Quello che ricomparve giusto vent’anni dopo, nel settembre 1992, per disputare un improbabile e non omologabile (né mai omologato) incontro di rivincita contro Spassky, ormai un ex giocatore, nella cupa Belgrado sotto embargo di Slobodan Milosevic; quello che sputò pubblicamente sulla lettera fattagli recapitare dal governo americano per invitarlo a desistere, pena una forte sanzione pecuniaria e dieci anni di reclusione; quello che, lasciata Belgrado, prese a peregrinare in giro per il mondo – Ungheria, Filippine, Giappone – per essere poi fermato in aeroporto, e arrestato in mezzo a grida e calci dalle autorità nipponiche, il 13 luglio 2004; quello che, grazie all’intervento del governo islandese, riconoscente per i riflettori accesi sull’isola scandinava dalla sfida contro Spassky, nell’ormai lontano 1972, poté lasciare il carcere e concludere i suoi giorni a Selfoss, dove è sepolto, nel freddo nel vento e nel buio del cimitero di Laugardaelir.
Sulla scacchiera, Robert James Fischer rimarrà comunque un mito ineguagliabile. Voi immaginate: il giovane americano non aveva mai battuto Spassky, ma il ciclo di sfide superate per arrivare al match di Reykjavík (diciannove vittorie consecutive: una striscia mai più ripetuta) avevano creato un’enorme attesa. Poi le incertezze dovute alle continue richieste di Fischer: sull’accoglienza a lui riservata in hotel, sulla borsa in palio, e poi sulla sede, la sala, le luci, le sedie… Finalmente il match ha inizio, e Fischer perde malamente la prima partita, con un errore banale in un finale sostanzialmente pari. Come se non bastasse, deluso e incazzato come una biscia, Fischer dà forfait nella seconda partita e minaccia di tornarsene a New York. Pretende silenzio assoluto, chiede di giocare in una nuova sala e senza telecamere: sembra in cerca di pretesti per mollare tutto. I sovietici insistono con il loro campione perché non assecondi le continue richieste dello sfidante, ma Spassky vuole giocare, ne fa un punto d’onore. Il match riprende, e il vento cambia: Fischer vince la terza partita, poi la quinta, la sesta, l’ottava, la decima. Una valanga. Spassky porta a casa qualche patta, vince un’altra volta soltanto, nell’undicesima del match, ma perde ancora la tredicesima e dopo una striscia di sette patte consecutive perde l’ultima, la ventunesima, che laurea il 3 settembre 1972 Robert James Fischer campione del mondo.
Poi tutto finì. Le vittorie, il successo, la gloria. La parabola si era compiuta: arrivato in cima al mondo, smise di giocare
Epilogo. Il 9 settembre 2001, Nigel Short, un forte Grande Maestro inglese, capace di contendere il titolo mondiale a Garry Kasparov (uscendone però sconfitto) mette a rumore il mondo intero: Fischer è tornato! Short scrive sul Telegraph che è sicuro “al 99 per cento” di aver giocato online contro Bobby Fischer una cinquantina di partite blitz (di quelle che si consumano in cinque minuti, in una girandola vorticosa di mosse e contromosse). Nell’ultimo round, scrive Short, ne ho perse otto di fila: dove lo trovo uno che mi batte con tale irrisoria facilità? Ma c’è di più: a un certo punto ho chiesto al misterioso avversario se conoscesse Armando Acevedo, e la risposta è stata immediata: “Siegen 1970”. Bene, Fischer ha giocato proprio contro Acevedo, nelle Olimpiadi di Siegen (quella della memorabile sconfitta contro Spassky, raccontata sopra): chi altri avrebbe potuto rispondermi con altrettanta prontezza?
Crederci è bello, caro Nigel. Pensare che a quasi sessant’anni, inattivo da quasi trenta (fatta salva la rivincita farlocca di Belgrado), fosse possibile a Fischer conservare intatti smalto e brillantezza è come credere che Elvis Presley è ancora vivo o che sull’isola di Montecristo è ancora nascosto un tesoro. Nell’epoca dei computer, dietro l’anonimato della rete, non ci vuol molto a togliersi lo sfizio di battere un rinomato Grande Maestro usando una chess machine, e con la barra di google rispondere in un batter d’occhio alla sua domanda. Chi però ha visto il giovane americano lungagnone atterrare, ormai è mezzo secolo, con il trofeo tra le mani all’aeroporto Kennedy di New York, sorridente come una star di Hollywood acclamata da fotografi e reporter, in attesa di un invito alla Casa Bianca (che non arrivò, e lui si offese mortalmente, maturando il più viscerale degli odi verso l’America: lui, l’eroe yankee della sfida contro il colosso sovietico), chi ha visto e sa tutto questo non si rassegna facilmente all’idea che quel purissimo genio scacchistico non avrebbe più giocato e avrebbe anzi concluso i suoi amari giorni come un barbone squilibrato, perseguitato dai suoi demoni e in rotta col mondo intero.
Ma se preferite i bei finali, provate allora con questo, che è ben reale. Fischer è in carcere, a Tokyo: Boris Spassky, l’avversario gentiluomo, prende carta e penna e scrive al presidente degli Stati Uniti d’America: signor presidente, non voglio difendere o giustificare Bobby Fischer, ma se lui è in carcere per aver giocato a Belgrado, allora merito anche io la detenzione, dunque “mi arresti, mi metta in cella con Bobby Fischer. E ci faccia avere una scacchiera”.
Boris Spassky oggi ha ottantacinque anni e una testa ancora lucidissima. Anche lui è stato un grande campione. Soprannominato il Puškin degli scacchi, conosce l’Evgeny Ogenin a memoria. Ama il tennis, le macchine, le donne, e non ha mai avuto bisogno di odiare gli avversari per giocare divinamente a scacchi.