Riccardo Ruggeri, da operaio della Fiat a manager a editorialista
"Una storia operaia", un libro sulla propria vita che è anche la cronaca di un’incessante ribellione. Il ritratto di un’epoca e degli straordianari personaggi, noti e meno noti, che l’hanno segnata e che l’autore ha conosciuto personalmente nel corso della sua lunga esistenza
Perché scrivere un libro sulla propria vita? E per chi? Per amore di se stessi, per poter approvare l’immagine di sé che si va costruendo nella scrittura? Oppure per lamentarsi e dare sfogo alle proprie inquietudini? Quest’ultima sembra essere la funzione del “journal intime”, così come lo concepiva Jean-Jacques Rousseau nelle Rêveries du promeneur solitaire. L’idea è pascaliana: “L’anima ha le sue tempeste e i suoi giorni di bel tempo”. C’è un po’ questo, ma c’è anche molto di più nell’ultima fatica di Riccardo Ruggeri (Una storia operaia. 1934-2022, Grantorino editore). Perché è anzitutto il ritratto di un’epoca e degli straordianari personaggi, noti e meno noti, che l’hanno segnata e che l’autore ha conosciuto personalmente nel corso della sua lunga esistenza.
“Spero di restare vivo fino alla morte”, recita un magnifico aforisma del critico letterario francese Jean Paulhan. Significa che la vecchiaia, contrariamente a quanto pensavano gli antichi, non è sempre sinonimo di rassegnazione. Perché la vecchiaia non può essere scissa dal resto della vita precedente: è la prosecuzione dell’adolescenza, della gioventù, della maturità. Ma, una volta che ci si è messi al riparo dall’incultura delle mitologie mercantili, chi invecchia può reagire con la consapevolezza di sé come soggetto socialmente indispensabile. E allora oggi più che mai, in un mondo in cui la scienza ci mette a disposizione qualche decennio in più da vivere, il linguaggio è “l’unica patria reale, l’unico suolo sul quale possiamo camminare, l’unica casa in cui possiamo fermarci e trovare riparo”, come diceva Michel Foucault. E nel linguaggio di Ruggeri si alternano la tenerezza per i suoi cari come la nostalgia per gli amici scomparsi, la stima per le figure imprenditoriali che hanno accompagnato il suo cursus honorum come l’indignazione per i soprusi di un potere spesso cieco e immeritato. Storia operaia la sua, ma anche storia di un manager che ha difeso con intransigenza il nucleo essenziale di valori etici che ne hanno ispirato la condotta negli affari.
Negli anni Cinquanta, Ruggeri entra in Fiat come operaio di seconda categoria. Poi, alla soglia dei quarant’anni viene promosso ai suoi vertici, fino al licenziamento per “eccesso di successo” nel 1996. Più tardi, stessa sorte toccherà alla Fiat. Fingendo di comprare la Chrysler, in realtà essendone comprata, abbandona il Lingotto e Mirafiori, cambia nome in Fca, si quota a Wall Street. Grazie al principe dei liquidatori, Sergio Marchionne, il più grande deal maker del primo decennio del Terzo millennio, gli azionisti diventano ricchi. Morto Marchionne, vendono Fca ai francesi di Peugeot, e cambiano nuovamente il nome in Stellantis: la “Famiglia”, nelle sue molteplici articolazioni, si disperde “nelle Ztl delle capitali dell’occidente”. Ogni tanto “qualcuno torna in Italia, nel fine settimana, per andare allo Juventus Stadium. Curiosamente, e incomprensibilmente, rientrano in forze nell’editoria italiana per gestirne la fine: ci stanno riuscendo”. Si conclude così una grande storia d’amore, durata oltre ottant’anni.
La seconda parte del libro racconta invece la sfida solitaria, disincantata ma ferma, dell’autore contro quelli che ritiene essere intellettualmente i suoi nemici, perché nemici della sua libertà. E con loro tutti gli ambienti che hanno sposato la cultura del “politicamente corretto”, fino ad arrivare alla sua forma più estrema, la cancel & woke culture dei radical chic. “Non accetterò mai – scrive – di sentirmi rinfacciare da chicchessia di essere quello che sono. Di vergognarmi di essere italiano, cattolico, maschio, bianco, erede di quella cultura giudaico-cristiana che ha pervaso e protetto per tutta la vita i miei avi e la mia famiglia. E pure di vergognarmi di essere padre, marito, innamorato della stessa donna da sessant’anni”. Decide così di autopensionarsi. Mette quindi gratuitamente a disposizione della comunità le sole tre cose che ritiene di saper fare: leggere, scrivere, lavorare. Viene “scoperto” da Pierluigi Magnaschi come giornalista e diventa ben presto un impareggiabile incisore di imperdibili “camei” sulla stampa nazionale.
Un luogo comune vuole che il vecchio imperturbabile di una certa tradizione retorica e il vecchio disperato per l’avvicinarsi della “finis vitae” siano due atteggiamenti estremi. C’è quello sereno e quello mesto, chi ancora assapora i propri successi e chi non riesce a cancellare dalla memoria le proprie sconfitte. Tra questi due estremi, in realtà, vi sono infiniti altri modi di vivere la condizione senile: l’accettazione passiva, l’indifferenza, l’ostinazione di chi rifiuta di vedere le proprie rughe e si camuffa con la maschera dell’eterna giovinezza; o, al contrario, il distacco dagli affanni quotidiani e il raccoglimento nella riflessione e nella preghiera; oppure la ribellione, attraverso l’incessante sforzo di continuare il lavoro di sempre. Una storia operaia, in fondo, è anche un prezioso documento di questa ribellione.