Le incompiute
Così i capolavori non ultimati svelano i segreti degli artisti
Da Bach a Schubert, da Michelangelo a Cézanne, un’eterna fermentazione. L’incompiutezza sottrae al confine, abolisce i limiti. Più che di opere “non finite” si dovrebbe allora parlare di opere “infinite”
In un imprecisato giorno d’inverno del 1865 il direttore d’orchestra austriaco Johann Herbeck si recò a Graz presentandosi alla dimora di Hanselm Huttenbrenner, un compositore ormai anziano che nel corso della carriera a Vienna aveva avuto modo di frequentare Beethoven, Schubert e altri importanti maestri dell’epoca. L’episodio non meriterebbe particolare rilievo se non per un aneddoto che ebbe luogo durante il colloquio, nel momento in cui il dialogo cadde sui lavori strumentali di Franz Schubert, scomparso trentasette anni prima, e vi fu il riferimento ad una composizione inedita e incompiuta. La curiosità dell’ospite e la sua insistenza fecero sì che il padrone di casa si decidesse infine ad aprire un cassetto, riportando alla luce un corposo, ormai consunto manoscritto lì conservato da più di quarant’anni: un’ampia sinfonia, posta sulla carta solo nei primi due tempi (con un terzo movimento appena abbozzato), tornava alla luce; un’opera di dimensioni monumentali, eppure incompleta, che Schubert aveva affidato a un amico come abitualmente faceva con i suoi manoscritti. La prima esecuzione della Sinfonia in si minore avvenne nel dicembre del 1865, a Vienna: fu la scoperta di un’opera di eccezionale valore, destinata a collocarsi tra le pagine più rilevanti di tutta la storia della musica. Due soli movimenti anziché quattro, eppure organizzati in una concezione formale unitaria, addirittura speculare, che ha fatto avanzare l’ipotesi che quella di non procedere oltre nell’edificazione di questa straordinaria cattedrale – benché esistano gli appunti per un terzo movimento – sia stata volontà precisa dell’autore. La Sinfonia in si minore, una delle più alte espressioni del romanticismo musicale, divenne così una sorta di manifesto dell’arte incompiuta, emblema di quelle opere che – nella scultura, nella pittura, nella musica – non hanno raggiunto la forma che era stata dai loro autori immaginata, progettata, ideata rivestendosi così di quell’aura misteriosa e affascinante che porta l’osservatore d’un tratto all’hic et nunc della loro genesi. Del resto è proprio questo soffermarsi sulla soglia della definitività che investe queste opere di un fascino altrimenti impossibile: la loro incompiutezza, sottraendone i confini formali, ne abolisce in qualche modo i limiti, rivestendo le loro sembianze di mistero e lasciandole affacciate a un orizzonte indefinito.
Michelangelo, non riuscendo più a stare in piedi, trascorreva il tempo a lisciare le gambe del Cristo, l’unica parte levigata della “Pietà Rondanini”
Più che di opere “non finite” si dovrebbe allora parlare di opere “infinite”, come ha suggerito Timothy Verdon riferendosi in quel caso a Michelangelo, che negli ultimi anni della sua vita (dopo avere peraltro lasciato incompiuto quel San Matteo che nel suo sforzo di uscire dalla pietra pare rivelarci la poetica stessa dell’artista) mise mano a due opere rimaste poi incomplete – la prima perché scartata dall’autore, la seconda per mancanza di tempo – fissando così in una sorta di immobilità dinamica il gesto che dalla materia che egli aveva tra le mani conduceva alla forma “per via di levare”: la Pietà Bandini, a cui lo scultore aveva messo mano tra il 1547 e il 1555, fu abbandonata non già con rassegnazione, ma con collera nel momento in cui – come si narra – accortosi dei difetti e delle imperfezioni del marmo (che “era duro e faceva spesso fuoco nello scalpello”) dal quale stava estraendo le figure, fuori di sé la prese a colpi di martello nel tentativo di distruggerla (colpendo in particolare le gambe del Cristo, proprio le stesse che egli, nella Pietà successiva, avrebbe accarezzato dolcemente, levigandole, fino agli ultimi giorni di vita). Se la narrazione del gesto furioso – con l’intervento in extremis di un collaboratore che salva l’opera – deve rimanere avvolta nella leggenda, certo è che la rinuncia fu dovuta al marmo inadeguato: un recente restauro ne ha confermato le impurità, individuandovi tracce di pirite e varie microfratture. E’ il Vasari a descriverci l’animo di Michelangelo, ricordandoci come “il giudizio di quello uomo fussi tanto grande che non si contentava mai di cosa che e’ facessi”. Eccolo allora impegnato nell’altro lavoro che accompagnò gli ultimissimi giorni, quella Pietà Rondanini che commuove svelando la travagliata riflessione di un maestro che tornò a più riprese sulle idee precedenti, qui trasformando il corpo della Madre in quello del Figlio e là ricavando il capo di lei dalle spalle della figura maschile, in una unità tra le due figure che più che questione di gestione del materiale scultoreo diviene vera e propria materia teologica. Il giorno dopo la morte dell’autore, che fino agli ultimi istanti lavorò a questo blocco di marmo (quando, non riuscendo ormai più a stare in piedi, trascorreva il tempo a lisciare le gambe del Cristo che infatti solo l’unica parte levigata dell’insieme) l’impiegato giudiziario che giunse a redigere l’inventario dei beni rimasti nello studio dell’artista aggiunse alla lista “un’altra statua principiata per un Cristo ed un’altra figura di sopra, attaccate insieme, sbozzate e non finite”. Non finite, o – appunto – infinite.
Proprio il rapporto tra Madre e Figlio, che nel racconto evangelico trova il suo culmine drammatico ai piedi della croce, viene toccato in musica attraverso un famosissimo lavoro che è la Messa in do minore di Mozart. E’ un altro capolavoro incompiuto, caratterizzato dalla brusca interruzione del Credo in cui, giunto all’annuncio della Natività, l’autore fa cantare il soprano per ben sette minuti unicamente sulle quattro parole decisive (Et homo factus est), come nell’intuizione che – dopo questo annuncio inaudito – non vi fosse tutto sommato altro da dire e qualsiasi aggiunta a questo culmine della fede fosse da ritenersi inutile. L’autore non vi aggiunse infatti altra nota (e manca totalmente il successivo Agnus Dei) lasciando incompleta una partitura che per questo motivo, in modo analogo al più tardo Requiem, venne pervasa dal fascino della frammentarietà: tra chi sottolinea che l’autore avesse lasciato in disparte un’opera che stava scrivendo di propria iniziativa per dedicarsi alle commissioni che prevedevano un compenso, e chi ipotizza che egli avesse percepito di essersi spinto stilisticamente troppo al di là delle norme inerenti la musica liturgica, una percezione rimane chiara: l’idea che, anche in questo caso, l’incompiutezza del manoscritto – con la penna che rimane sospesa dinnanzi al mistero più grande e incomprensibile per l’uomo – ne costituisce l’inestimabile valore.
E’ noto che, da un punto di vista compositivo, gli abbozzi incompiuti hanno la capacità di svelare i procedimenti di strutturazione dell’opera, il travaglio interiore dell’artista, l’inafferrabile dinamica che accompagna la transizione dalla materia alla forma nel vertiginoso istante della libertà creativa. Come avrebbero fatto le tante pagine che la moglie di Mozart, dopo la sua morte, eliminò, giudicando quei manoscritti e quegli appunti “del tutto inutili” e in tal modo privando i posteri della possibilità di scoprire qualcosa di più sul processo creativo di quel genio. Come, in tutt’altro contesto storico, permette di fare l’Adorazione dei Magi che Leonardo Da Vinci, spostandosi da Firenze a Milano nel 1481, lasciò, pur non avendola completata, presso un monastero del capoluogo toscano. E’ proprio l’imperfezione di questa tavola incompiuta che ci offre preziosi dettagli sul modus operandi dell’autore, sui suoi studi, sulle sue intenzioni, con la fitta presenza di figure tratteggiate, talora solo abbozzate e quasi nascoste nell’articolata rappresentazione complessiva. Eppure, tra le linee e i chiaroscuri di tale incompiutezza – valorizzati da un recente restauro – emergono con sorprendente efficacia le espressioni, i sentimenti, verrebbe da dire le anime stesse dei personaggi – siano essi esaustivamente ritratti o delineati appena – che abitano, talora affollandolo, il dipinto.
L’ampiezza ideale dell’“Arte della Fuga”: Bach non lasciò indicazioni strumentali, così che l’opera può essere eseguita dai più diversi organici
Non è infatti la completezza garanzia di profondità espressiva, la quale si trova piuttosto già in nuce nei primi tratti – sonori, verbali, pittorici – della creazione. Nei primissimi tratti, per esempio (con l’austero tema iniziale che diviene elemento fondante di tutta la partitura) avviene nell’opera, appartenente al secolo XVIII, nota come L’Arte della Fuga, che il sommo Johann Sebastian Bach lasciò interminata alla fine dei suoi giorni, donando ai posteri una delle creazioni più alte della storia della musica. L’ampiezza ideale di questa composizione non è data solo dal fatto che essa non ha confini che ne delimitano la struttura formale, ma al contempo dal fatto che l’autore non mise per iscritto alcuna indicazione strumentale sul pentagramma, così che l’opera può essere eseguita dai più diversi organici (da singoli strumenti a tastiera fino ai più vari ensemble orchestrali). La sigla Finis. Soli Deo Gloria, posta dal compositore in calce ai suoi manoscritti, lascia qui il posto a una incompiutezza che apre la percezione dell’ascoltatore a una dimensione infinita e in tal modo lo affaccia al divino ancor più che nelle pagine in cui questo riferimento è dall’autore esplicitato. Vicenda assai discussa quella di una partitura che, giunta al celebre Contrapunctus XIV, sulle note del nome di Bach (B A C H corrispondono a Si bemolle, La, Do, Si) si interrompe bruscamente nel punto in cui, più tardi, il figlio dell’autore scrisse: “In questa Fuga, dove il nome BACH è utilizzato come controsoggetto, il compositore morì”.
Cézanne, nel suo tornare decine di volte sul paesaggio de “La Montagne Saint-Victoire”, ci fa domandare se si tratti di tele compiute o meno
Si direbbe talora che l’incompiutezza sia determinata dall’impossibilità di raggiungere pienamente la perfezione a cui l’artista aspira, tanto alto è l’obiettivo ultimo cui tende. Come fece Paul Cézanne, nel suo tornare decine di volte sul paesaggio de La Montagne Saint-Victoire con quello stile pittorico fatto di pennellate fugaci, tese alla semplificazione delle forme, che ci lascia interdetti a domandarci se si tratti di tele compiute o meno, oppure a chiederci per quale motivo non abbia riempito i piccoli spazi bianchi nel Ritratto di Ambroise Vollard (“Forse troverò il tono giusto per coprire questi spazi” aveva detto, prendendo tempo, ma poi rimasero tali) o, ancora, nel fermarci a contemplare le nature morte con arance di un autore che pare suggerirci l’idea che l’essenza stessa delle cose – siano pure dei semplici frutti su un tavolo – sia destinata a rimanere inafferrabile: “Stupirò Parigi dipingendo una mela”, aveva dichiarato.
Quale che sia il motivo per cui sono rimasti incompiuti rimane, in questi lavori, un fascino ineffabile che nelle opere giunte a compimento non si determina: è “l’incanto proprio delle cose rimaste imperfette”, scrisse Fritz Baumgart. E’ forse la capacità di rappresentare il nucleo stesso del gesto artistico, immortalando l’istante che costituisce l’essenza stessa dell’arte: quella flagrante tensione al compimento, che viene colta non al suo punto d’arrivo ideale, cioè al suo realizzarsi, bensì nella dinamica stessa, fissando l’istante preciso in cui il processo creativo porta la materia verso la forma, l’attimo della straordinaria lotta tra l’idea concepita e la materialità del reale (sia esso rappresentato da pietra, suoni, parole o colori), in un fremente desiderio di liberazione simile alle guglie della Sagrada Familia di Gaudì che, a quasi un secolo dalla scomparsa dell’architetto, continuano a ergersi sempre più in alto verso il cielo di Barcellona.
Del resto, quand’anche perfettamente compiuta, l’opera d’arte ha per nucleo fondante qualcosa che rimane al di là del suo essere immanente, esprime un mistero che non si esaurisce nell’opera stessa: etwas fehlt – qualcosa manca – scriveva Ernst Bloch. Si direbbe che il contenuto stesso dell’arte sia qualcosa che esula dai confini dell’opera stessa, in una dinamica ben descritta da Walter Benjamin quando dichiarò di trovare, anche nelle opere portate a termine, qualcosa di “necessariamente incompiuto”. Il fascino dell’opera non finita, forse, sta proprio in questo carattere trascendente: la capacità di incarnare quella palpitante tensione che di ogni opera d’arte è il contenuto più profondo.