LE CASE DEI LIBRI NON SONO DI CARTA - 6
La biblioteca Dino Pieraccioni, un elogio fiorentino
Quella dell’Istituto dei ciechi in Campo di Marte non è solo una delle più nobili istituzioni nazionali. È una biblioteca di quartiere, il mio, dove pulsa il ritmo dei libri e della città
“Non è più qui” insinua una voce di sorpresa / “il cuore della tua cità”“ e si perde / nel dedalo già buio / se non fosse una luce / piovosa di primavera in erba / visibile al di sopra dei tetti alti
(Mario Luzi)
Ci sono luoghi dove, in attesa, c’è sempre un’età o un anno specifico della tua vita, dove gli odori e i colori stessi ti fanno improvvisamente, involontariamente diverso, come certe strade percorse la mattina solamente quando andavi alle elementari o al liceo. Cammini accanto a un certo muro, ed eccoti avere di nuovo diciassette anni, intravedi un giardino e rivivi sempre quando ti sdraiasti su quella panchina sotto il salice, e chiudesti gli occhi, sperando di riaprirli e contro ogni speranza trovarti davanti chi ti ha causato tanto dolore e sconcerto, con una mano tesa per accarezzarti. In altri luoghi invece si sedimenta la stratificazione rocciosa di tutte le volte in cui ti ci sei recato, anno dopo anno, sotto l’influsso di questa o quella esperienza, magari sempre nella medesima stagione, come certe residenze estive che potresti percorrere a occhi chiusi e che pure ogni anno percepisci in modo lievemente diverso, e proprio quello scarto esplicita quanto ti è capitato dall’ultima visita, cosa si è stato aggiunto o sottratto alle lenti dell’anima.
Diversi ancora sono quegli spazi cui torni sempre e comunque, nel variare delle stagioni e nel susseguirsi degli anni, dove fumi una sigaretta tanto nelle mattine di marzo fredde e ardenti quanto sotto un albero spoglio e nero o quando vi sbocciano i fiori, luoghi che proprio per questo costituiscono un crocevia di tutti i tuoi percorsi, visibili e invisibili, come un fiume carsico, una nota discreta e costante di sottofondo.
La biblioteca del mio quartiere, la Dino Pieraccioni dell’Istituto dei ciechi, a Firenze, in Campo di Marte, è uno spazio che, in un certo senso, inizia già a casa. Balzac scriveva indossando una palandrana da monaco cistercense, Dostoevskij non poteva soffrire di trovarsi in disordine, e cominciava solo perfettamente vestito e pettinato. Io non ho ancora deciso cosa preferisco. Gli anni del Covid ci hanno abituati a lavorare sullo stesso tavolo dove abbiamo appena fatto colazione, pochi istanti dopo, e adesso persino i venti minuti che eventualmente mi separano da una mattinata di scrittura in biblioteca, l’interruzione delle email da spedire, del lavoro già iniziato, o addirittura la scelta di rimandare tutto alle nove e aprire i file solamente quando sarò seduto al tavolo accanto ai romanzi storici, con davanti la vetrata che dà sul cortile interno di pietra grigia e intonaco bianco e la letteratura russa alle spalle, mi paiono un lusso se non una palese perdita tempo, che tuttavia mi impongo ancora, come a recuperare una cadenza diversa, un momento gratuito, un respiro.
La stessa routine con cui mi avvicino all’edificio con la sua grande facciata color grigio tenue e i tre ingressi sotto gli archi, più o meno scandita sempre dai medesimi passaggi, ha qualcosa di riposante, forse solo perché accosta il mio lavoro, così informe nell’occupare tutti gli spazi e gli orari, al pari di una pulsazione continua, senza ferie e cartellini, a quello dei commercianti e degli impiegati o anche solo degli studenti: il secondo (terzo) caffè al bar, leggendo il giornale lasciato al banco, la strada in salita, che proseguirebbe verso le colline e Fiesole, con le ville sul lato opposto che ho spesso indicato assieme ad amici o parenti in qualche passeggiata, giocando a spartircele. La mia preferita resta quella con la torretta color crema e il balconcino in ferro battuto, dove scriverei e fumerei guardando lo stadio, e la città più avanti, verso il fiume. Nella scuola superiore lì vicina, le ragazze della seconda ora chiacchierano all’esterno, il negozio della parrucchiera è ancora vuoto.
L’Istituto dei ciechi c’è sempre stato, nella mia vita, con la sua vasta mole rettangolare, affiancato dai vecchi istituti fascisti coi bassorilievi degli agricoltori nudi e le fascine di mietitura in spalla. Il quartiere stesso dello stadio comprende molti edifici degli anni Venti, e qua e là si intravede ancora un muro basso o una ex cascina che conservano pallidi echi della vecchia campagna. L’Istituto fiorentino, sorto per iniziativa del reduce di guerra Aurelio Nicolodi, commilitone di Cesare Battisti, medaglia d’argento sul campo che perdette la vista nella Prima guerra mondiale, era associato ad altri enti benemeriti, come la Stamperia Braille e la prima scuola per cani guida. La strada ha oggi il suo nome. Nel 1931 la versione ultimata dell’istituto, insignito del titolo di Nazionale, fu inaugurata dal monarca Vittorio Emanuele. Scalinate di marmo, cortili interni, perfino un teatro e una cappella. Percorrendo i corridoi si intravedono le raccolte scure di migliaia di audiolibri dell’Ausilioteca, come in una cineteca o negli archivi delle vecchie redazioni dei giornali. Gli archivi comprendono i sussidi di un secolo, dai fumetti in braille ai mappamondi in rilievo. Nei corridoi del seminterrato si diceva che si aggirassero i fantasmi del convitto, le suore e i ragazzi della scuola per ciechi. In fondo, al pianterreno, introdotta dalla sala dei quotidiani e delle riviste e da quella multicolore dei libri e giochi per bambini, superate le macchinette del caffè, gli annunci delle iniziative di quartiere, le escursioni, le offerte di ripetizioni, ecco la biblioteca comunale, con gli scaffali a creare ulteriori stanze rispetto alle due-tre della planimetria. Gli studenti, principalmente universitari, la occupano a gruppetti, che si possono quasi identificare a vista con una sorta di rispettiva “casacca”: perlopiù ingegneri, medici, qualche ragazza di Lettere. I pensionati – quasi tutti uomini – leggono i giornali; qualche signora restituisce i libri al bancone. Per qualche anno una donna sui trentacinque si è presentata ogni mattina, per accendere il pc offerto agli utenti per le ricerche e la navigazione gratuita, percorrere la sua pagina Facebook piena di meme religiosi, animaletti, fiori, dondolando la testa, parlottando estatica tra sé, e andarsene. Le varie sezioni offrono un buon catalogo, niente di immenso rispetto alla Nazionale o alla Marucelliana – sulle cui burocrazie bizantine per ottenere un libro si scherza non poco: “Cosa ha sognato ieri sera?”. “Mia nonna”. “Allora il libro non glielo posso prestare”. Eppure, per il plasmarsi della mia anima e, credo, non solo della mia, quei reparti di letterature nazionali, teatro, cinema, religione, filosofia, sono stati tanto più decisivi.
Per almeno un anno, quando facevo le medie, ci siamo solo occhieggiati a distanza, quando prendevo il bus lì davanti per pranzare dai nonni. Poi, un giorno, a dodici anni, sono entrato. Per un ragazzino che già amava profondamente le storie, fu come se a un alcolista fosse stata schiusa una botola che scendesse in una cantina segreta, zeppa di bottiglie e otri, anzi, molto di più. Riprendendo una immagine della Narnia di C. S. Lewis, una volta J. K. Rowling descrisse i libri come una infinita distesa di stagni, tuffandosi nei quali si irrompe ogni volta in un mondo diverso. Aggirarsi per quegli scaffali dava il medesimo senso di vertigine, di infinite possibilità. L’ubriacante libertà di prendere quello che volessi, gratuitamente, e persino a gruppi di due-tre volumi, suscitava per la sua stessa estensione nuove forme di cupidigia, nuove frustrazioni, che il singolo acquisto in libreria non mi avrebbe mai indotto. Perché solo due, perché solo tre libri per volta? Quante volte sono tornato a capo basso, vergognandomi come un ladro ma anche stizzito come chi si veda sottrarre un possesso legittimo, per una riconsegna in ritardo. Ricordo la Bovary a 12 anni, alcuni libri che persino dalle copertine fecero mancare un gradino all’anima, perché sembravano già incarnare volti, storie, emozioni che non conoscevo eppure conoscevo, come i primi accordi di Hejira di Joni Mitchell. Quella confusa intuizione, ora vaga, ora disattesa, ora confermata col bagliore di un fulmine in cristallo, era già una vittoria. In biblioteca ho scoperto di non essere solo, che altri avevano amato quello che amavo io, e persino odiato quello che odiavo io. Come una ragnatela, un susseguirsi di profili montuosi o un’abbagliante cena di gala, le letture portavano ad altre letture, gli amici lontani nel tempo ne introducevano altri. Wilde presentò Pater, Papini Whitman, Lewis Chesterton.
Ricordo il Teatro Greco integrale della Utet su cui lessi la Medea e i frammenti di Eschilo, come colonne di palazzi spezzati che emergano dalla nebbia vorticosa – Così l’aquila, trafitta dall’asta dell’arco, guardò, il dardo piumato e disse: “Così, non da altri, ma con le nostre stese piume siamo uccisi – e poi i Luzi Bigongiari Betocchi dei diciassette anni, quando, come un ulteriore rinascimento nel senso vago e inesauribile di possibilità di quegli anni, nello strano dialogo che si instaura tra un vecchio volume ingiallito e l’energia infinita e bruciante dell’adolescenza, nel corso di pomeriggi primaverili in cui la polvere danzava nella luce dalle alte finestre, esplose la scoperta della poesia, quella voce che ricomincia sempre miracolosamente nel medesimo punto del tuo battito, sprofonda nella stessa pausa silenziosa. Libri come vaste geometrie di senso, saggi letterari come costellazioni di rimandi ed echi, classici che solo a scorgerne i titoli ti ringiovaniscono perché incontrati sui banchi di scuola, romanzi come canzoni tristi, capaci di strapparti una sorta di sogghigno incredulo quando anche tu sei innamorato. Gli anni del liceo hanno ceduto il passo a quelli dell’università, e poi a quelli dei primi articoli, ai saggi, alle traduzioni.
Superati i passaggi condivisi dello studio individuale eppure comune, ecco che continuo a recarmici, formalmente compiendo i medesimi gesti di ragazzi molto più giovani di me – estrarre qualche volume dagli scaffali o dalla borsa, aprire il pc, scrivere al lungo tavolo provvisto di prese elettriche, firmare il registro, andarmene a casa – in quell’attività così precisa e indefinibile che è scrivere e basta. Potrei farlo pure nei caffè o nei coworking del centro, quelli frequentati perlopiù da universitari, ricercatori e studenti americani, ma non ci sarebbero quei libri che prendo sempre in più rispetto a ciò su cui devo effettivamente lavorare, e che dispongo accanto al computer come talismani, e quel senso – così raro in città come Firenze che dispongono i tornelli persino in università, sempre più mangiate dagli spazi a pagamento che ne fanno delle specie di Disneyland rinascimentali – di trovarmi in uno degli ultimi veri spazi intergenerazionali. E’ un’esperienza che supera il semplice sedere accanto ai bambini che disegnano, ai liceali che fanno i compiti, alle coppie che si baciano con la costanza di un rubinetto d’acqua che perde, ai vecchi che sfogliano le pagine locali della Nazione. In qualche modo lì, siamo tutti insieme, e quegli stessi volti mi capita di riconoscerli per le strade attorno allo stadio.
Faccio pausa col caffè alla macchinetta, passeggio tra gli scaffali per riposare gli occhi. I titoli sono vecchi amici, scoperte nuove, suggerimenti per nuovi lavori, rimandi intravisti altrove e dimenticati, come volti in vecchie fotografie. Così tante edizioni non ristampate, così tante storie, ricerche, studi che oggi quasi nessuno ricorda più. Una tale marea di sogni, patimenti, storie che assillavano e prudevano ai margini della mente, come mani tese di bambini che implorino di essere presi in braccio. Così tante speranze, fatiche, vittorie e sconfitte e riconoscimenti e frustrazioni. Eppure sono lì. Fa malinconia, ma non solo, non del tutto.
Esco a passeggiare nel giardino incolto, tra rami marciti, vecchie nicchie della Madonna, laghetti di acqua stagnante, ninfee. A risalire un poco la strada, c’è il campo sabbioso di allenamento dei Verdi del Calcio storico, e talvolta nell’aria si coglie il profumo della carne alla griglia. Qualche amico scrittore o giornalista talvolta lavora con me, e allora negli stacchi si chiacchiera e si fuma, ma anche da soli va bene così. All’uscita, verso l’una, ci sono i ragazzini delle medie che, come me trent’anni fa, aspettano il bus, si ripetono battute e parole storpiate che hanno senso solo per loro. “Sei un ridicoloh. RidicolohW”.
Pranzo in rosticceria, accanto agli operai in pausa. Qualcuno entra a ritirare le verdure fritte, il caciucco. La proprietaria ha più di ottant’anni, il sorriso che non arriva agli occhi, la voce bassa e musicale del fiorentino di vecchio pelo. “Amore, se chiudessi tutto e andassi in pensione ci resteresti male?“ “Moltissimo”. “Allora non chiudo, Amore”. Nei negozi di carne, frutta e verdura rimbalza la sequenza riposante delle frasi scontate: “Me ne dia di quelle bone”. “Queste come si fanno?”. Tutto ciò trionfa, per così dire, il sabato mattina, il momento più giovane della settimana, una vacanza o primavera in miniatura, che piova o ci sia il freddo sole d’inverno, con la scuola che finisce per un giorno e mezzo. Anche la biblioteca chiude prima, niente orario del pomeriggio, e allora si torna a casa passando davanti alla latteria, alla chiesa parrocchiale, al negozio di biciclette, e dal tutto promana quella indefinibile bontà, “il giusto della vita, l’opera del mondo”, provò a definirla Luzi ascoltando una massaia cantare nel curare i fiori in terrazza: una sensazione quasi solida, la stessa per cui Chesterton ne Il Napoleone di Notting Hill intonava l’elegia dei quartieri e sosteneva che andassero circondati da mura d’oro e vi si entrasse al suono d’una marcia trionfale. Perché il ritmo della vita là fuori si intreccia con quello delle ore silenziose, appena trascorse tra gli scaffali. In quelle sale i bambini si fanno ragazzi, gli universitari vi compaiono per alcuni anni e, come in una staffetta perpetua cedono il posto ad altri, curvi sugli stessi manuali di ginecologia; molti spariscono e non fanno più ritorno, qualcuno vi invecchia e basta, come me. E io, che rivedo qualcosa di me stesso nei più giovani, so che anche i vecchi dell’altra sala sono uno specchio, un promemoria. Mi domando cosa cercherò qui, tra venti, quarant’anni, quale lavoro darà senso alle mie giornate, a quale amore balbettato, delusione, quale ricerca incalzata dal lento commiato da tutto farà da sfondo quella infinita riserva di debito, quale cortesia, curiosità o indifferenza incontrerò negli occhi di chi oggi ha la mia età. Possono permettersi di fare un po’ i gentili con noi, notava Tomasi di Lampedusa. Mi spero ancora animato da qualche grande causa che mi riempia di amore e odio, come oggi, perché solo un’estrema mediocrità permette di durare quanto le viscere e morire assieme al nostro ultimo soffio, scriveva Bernanos. Credo proprio che avrò ancora storie da raccontare, da segnalare, da tradurre. Penso a quando forse i miei stessi libri finiranno proprio lì, in un fondo con una targhetta che ringrazia per la donazione, e tanti saluti. Sempre che esistano ancora, posti così. Cosa ne sapranno i ragazzi che si baceranno lì davanti, il dottorando che scorre lo scaffale con l’indice, in cerca di quelli che furono i miei Raimondi e Campo. E penso di non ingannarmi nel sapere che quelle file di titoli, domani come ieri, resteranno sempre un grande mare che mi supera e abbraccia, in cui fare il morto, le braccia larghe, gli occhi chiusi. La cosa mi è già un po’ funerale, spero resti sempre anche un letto, e culla. Firmo sul registro ed esco, parificato dall’opera del mondo in tutte quelle pagine che non leggerò mai e che continua a parlarmi nelle strade subito fuori, superato il vestibolo in cotto, le mimose e il cancello, nel ritmo che ci disfa, e ci sostiene.
"Illuminata, solitaria, infinita, perfettamente immobile, armata di volumi preziosi, inutile, incorruttibile, segreta”. È la “Biblioteca di Babele” per Borges. Per il Foglio, le biblioteche sono luoghi da scoprire, sono la storia e la cultura di chi le ha edificate e di chi le vive ogni giorno. Abbiamo affidato ai nostri scrittori un viaggio del cuore alla scoperta delle più belle biblioteche italiane.
Il 13 luglio abbiamo pubblicato “Leggere nella casa di vetro” di Claudio Giunta,
il 20 luglio “Il granaio delle Scienze” di Marco Archetti,
il 27 luglio “La tessera numero 54 sono io” di Paolo Nori,
il 3 agosto “Libri scampati alla battaglia” di Gaia Manzini,
il 10 agosto “Belle époque in sala stampa” di Francesco Palmieri.
E il viaggio continua