Roma, Foto di Ansa 

capitale corrotta

Roma “città infetta”, centro della corruttela e inadeguata per uno stato moderno

Giovanni Belardelli

Da bastione anti Bisanzio a “fetida alluvione di melma”. Nel corso degli anni la capitale si è guadagnata la fama di un luogo sporco, nell'aspetto e nella morale: una spiegazione in più sul perché non ci scandalizziamo dei cinghiali e della spazzatura

Cosa è Roma per noi italiani? Non intendo dire per il resto del mondo, per tutti i turisti che ne visitano – ammirati – i monumenti incomparabili, ma cos’è per noi che l’abbiamo come capitale? La città è da tempo allo sbando: dai cinghiali che la invadono alle metropolitane che funzionano a singhiozzo, dalle montagne di spazzatura al manto stradale così disastrato da aver causato più di un morto; ma proprio per questo colpisce l’assoluta sua assenza nel nostro discorso pubblico, come se nessuno avesse nulla da dire sull’argomento, come se parlassimo di una città di un altro paese.

 

Una possibile spiegazione potrebbe essere che – essendo stata governata Roma da sindaci di ogni colore – il disastro in cui versa da tempo non può essere utilizzato nella polemica politica spicciola e dunque dell’argomento non si parla. Ma in realtà c’è dell’altro, e non da oggi: un’ostilità sotterranea, una diffidenza antica che affondano le radici nella cultura del paese, nella sua memoria profonda. 

  
L’immagine di Roma era stata ben presente ai protagonisti del Risorgimento e si trattava in realtà, come è noto, di un’immagine assolutamente positiva. Nel 1849 Giuseppe Mazzini entrava nella città “trepido e quasi adorando”, convinto che dal Campidoglio, liberato dal giogo papale, si sarebbe dovuta proclamare l’universale liberazione dei popoli.

 

Il mito di Roma avrebbe attraversato i decenni successivi, fino e oltre la conquista della città nel 1870, assumendo caratteri diversi. Per Carducci, che svolse un ruolo essenziale nell’alimentare quel mito presso generazioni di italiani, Roma rappresentava l’Italia ideale da contrapporre a “Bisanzio”, cioè alla prosaica e deludente realtà dell’Italia reale. Per Mussolini, vari decenni dopo, i tonitruanti richiami all’antica Roma imperiale sintetizzavano l’obiettivo di una nuova potenza italiana e i valori di forza e gerarchia che erano centrali nell’ideologia fascista. 

  
Ma parallelamente si erano diffuse da tempo nel paese anche immagini negative dell’Urbe, che per qualcuno non era adatta a essere la capitale di un paese moderno, gravata com’era da un così ingombrante passato, dalle vestigia di una antica grandezza.

 

L’arrivo degli uomini e delle strutture del nuovo stato non attenuava questo carattere di città non-moderna, come mostrava la stessa rappresentazione del ministeriale ozioso divenuta presto archetipica e sopravvissuta fino a oggi. Ecco quel che scriveva nel 1872 Carlo Dossi, allora dipendente del ministero degli Esteri: “Sono le 12.30. Gli impiegati cominciano a comparire tartarughescamente, ma nessuno si decide a far qualche cosa. M’accorgo che nei ministeri l’ozio è eretto ad impiego”. La popolazione della capitale, affermò quarant’anni dopo Giovanni Papini nel celebre e contestatissimo “Discorso di Roma” del 1913, “non aveva nessuna voglia d’ingegnarsi né di lavorare, abituata come era a vivere di benefici ecclesiastici e di minestre di frati”. Il discorso di Papini, che era allora nella sua breve fase futurista, voleva esplicitamente épater le bourgeois (e il pubblico infatti reagì lanciando frutta e ortaggi contro l’oratore). Ma nella sostanza quell’idea di Roma come città parassitaria, che viveva sulle spalle del resto del paese, era e sarebbe rimasta diffusissima. 

 

Anche perché, in quegli stessi anni, avviandosi decisamente l’industrializzazione della penisola, si affermava pure la convinzione che il motore dello sviluppo economico italiano andasse trovato nel Settentrione e non certo in una città come Roma, in cui l’unica industria era quella dei forestieri. L’immagine di una città prigioniera del passato e refrattaria alla modernità veniva rafforzata dalla contrapposizione con Milano, che a molti appariva come una capitale alternativa. Una città, quest’ultima, che era effettivamente all’avanguardia dello sviluppo industriale e commerciale del paese e a stretto contatto con l’Europa più progredita. 

 

C’era poi chi notava che l’Italia era un paese di città (delle “cento città”, secondo la celebre definizione di Carlo Cattaneo), la cui vera identità era legata alla dimensione provinciale, prima che nazionale. Un paese perciò che mai avrebbe potuto avere nella capitale il suo centro pulsante, com’era invece Parigi per la Francia. Tanto più che prima dell’unità d’Italia, alcune di quelle città erano state a loro volta delle capitali: da Torino a Firenze, da Venezia a Napoli. 

 

Ma soprattutto, tra le varie immagini negative di Roma la più potente fu quella della città come capitale della corruzione. Nata a fine 800, a partire dalla “febbre edilizia” di quegli anni e di scandali come quello della Banca romana, l’idea che la capitale, in quanto sede della politica nazionale, fosse anche luogo di collusione tra mondo della politica e mondo degli affari, dunque il centro dell’affarismo e della corruzione, ebbe subito una diffusione enorme. La letteratura ci avrebbe subito messo del suo, dipingendo Roma come “una città infetta” (D’Annunzio), colpita da una “torbida fetida alluvione di melma” (Pirandello).

 

Di tutte le rappresentazioni negative dell’Urbe questa era destinata a essere la più longeva, che non sarebbe stata scalfita alla fin fine nemmeno dalle inchieste milanesi di Tangentopoli. Ma allora, se letta alla luce di certe antiche rappresentazioni negative, di certi sedimenti profondi della nostra cultura, l’assenza di qualunque riferimento alla capitale nel nostro discorso pubblico (e nella campagna elettorale), per quanto censurabile, diviene meno incomprensibile. 

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