Nuove uscite
È anche colpa della censura se gli italiani leggono poco
"Libri pericolosi" è un libro di Giorgio Caravale che ripercorre i secoli dell'azione di repressione letteraria esercitata dalla Chiesa cattolica e non solo. Sono anche questi storici divieti ad aver creato un popolo di lettori deboli
Tra i significati del termine latino “censura” vi è quello di “diritto di biasimare severamente”. Questa precisazione filologica può risultare utile nel momento in cui ci accingiamo a leggere il ponderoso volume di Giorgio Caravale, docente di Storia moderna nell’Università di Roma Tre, intitolato Libri pericolosi. Censura e cultura italiana in età moderna (Laterza, 534 pp., 30 euro). In esso, infatti, viene raccontata con molta precisione la storia della rigorosa attività di controllo esercitata sui libri nei secoli XVI-XVIII da parte della Chiesa cattolica, che aveva la convinzione di possedere il “diritto di biasimare severamente” e giudicare (“giudizio” è un altro dei significati latini della parola “censura”) le opere che, dopo la grande scoperta di Gutenberg, venivano stampate e circolavano con una velocità impensabile solo pochi anni prima.
Afferma Caravale: “Attraverso gli indici dei libri proibiti, lunghe liste di volumi ritenuti pericolosi o anche solo sospetti, Roma si propose nei primi secoli dell’età moderna di controllare l’intera produzione libraria, individuando di volta in volta i titoli e gli autori dei testi da intercettare, sequestrare ed eliminare dalla circolazione”. Come è facile comprendere, si trattava di un progetto pressoché irrealizzabile, poiché non sarebbe stato possibile sorvegliare tutto ciò che usciva dalle sempre più numerose stamperie, ma i censori cattolici si impegnarono ugualmente in modo molto attivo in questa loro opera, nella speranza di riuscire a esercitare una supervisione quasi totale sui tantissimi testi in circolazione.
L’opera della censura ecclesiastica – di questa dichiara di occuparsi Caravale, precisando tuttavia che, nei secoli, non è stata soltanto la Chiesa a concretizzare una decisa azione censoria – non si esaurì nel bruciare sul rogo i libri ritenuti dannosi e pericolosi, ma dette luogo a un fenomeno assai ampio e complesso, che l’autore ricostruisce con particolare attenzione. “La censura – egli scrive – fu eliminazione, soppressione, cancellazione, ma anche sostituzione, restituzione, riscrittura”. Essa non si esaurì in una serie di atti repressivi, ma andò anche nella direzione di “favorire e guidare una profonda spiritualizzazione dell’offerta editoriale”. Al posto dei testi incappati nelle strette maglie dei censori, e che perciò scomparvero dal mercato librario, fecero la loro comparsa nuove opere spirituali e devozionali, “mentre un numero significativo di libri proibiti venne materialmente riscritto per iniziativa di autonomi correttori o degli stessi autori, preoccupati di prevenire l’intervento della censura, pronti a intavolare serrate negoziazioni con gli organi romani autocensurando le loro opere”.
Tuttavia i libri proibiti continuarono a circolare e a essere ricercati e acquistati, tanto che il loro prezzo aumentò a tal punto che solo pochi potevano procurarseli. Così si ridusse il numero di coloro che avevano accesso a letture di ogni tipo, mentre aumentò quello di chi era vittima del clima di sospetto alimentato dalla censura. D’altra parte, come fa notare Caravale, in tutta Europa era diffusa e accettata l’idea che un vero e proprio abisso separasse i sapienti dal volgo: la conoscenza e l’uso della lingua latina erano gli strumenti adatti a mantenere immutato questo stato di cose. Nel 1998, l’apertura degli archivi del Sant’Uffizio ha dato un forte impulso agli studi relativi alla censura ecclesiastica.
Ne è derivata un’immagine di una realtà molto più complessa rispetto a quella che si era avuta nel passato: “Siamo oggi lontani – sostiene Caravale – dalla vecchia contrapposizione tra una cultura laica oppressa e un mondo ecclesiastico oscurantista… lontani dall’idea di un’Italia controriformata tutta soggetta alla tirannia ecclesiastica”. Inoltre, è definitivamente tramontata anche l’interpretazione secondo cui il mondo protestante sarebbe stato immune dal fenomeno della censura. Attraverso la ricostruzione delle vicende vissute dal libro e, in particolare, dal libro censurato, Caravale traccia le coordinate fondamentali di tre secoli di storia della cultura.
Quali testi furono giudicati pericolosi e perché? Per quale motivo i censori si dimostrarono particolarmente attenti “a tutte le forme culturali indirizzate ai cosiddetti ‘semplici et indotti’”? Che tipo di oggetto divenne il libro mutilato, corretto, espurgato, riscritto, negoziato, plagiato, dissimulato? L’autore risponde a tutti questi interrogativi e la sua analisi si conclude con uno sguardo sull’Italia contemporanea, nella quale troviamo la presenza di una piccola percentuale di lettori forti e una larga maggioranza di lettori deboli, una situazione che agli occhi di Caravale costituisce la prova che secoli di censura hanno prodotto nel nostro paese una profonda diffidenza nei confronti della lettura.