Facce dispari
Giona Nazzaro: “Il cinema c'è sempre ma senza nostalgie”
E' il direttore del Locarno Film Festival, il primo italiano a studiare il cinema di Hong Kong. "Compito dei festival è scovare avvisaglie di nuove aurore"
Come gli nacque la passione per il cinema, il critico Giona Nazzaro, 57 anni, te lo racconta pure a patto di evitare “le tipiche autoagiografie” e di non recitare de profundis sulla crisi di un’arte, quelli che a luci spente si concludono con il “c’era una volta (ed era meglio)”. Direttore artistico del Locarno Film Festival, che ad agosto ha celebrato la 75esima edizione, Nazzaro vive da ottimista la fase di trasformazione dell’industria cinematografica.
Su cosa fonda le sue aspettative?
Le trasformazioni non investono il bisogno di cinema del pubblico, quel che cambia è la relazione tra le parti della filiera. Bisogna ripensare la produzione, la distribuzione, il rapporto con le sale e le nuove forme di diffusione cercando risposte praticabili. Esplorando il panorama delle possibilità. Se guarda nel palmarès dell’ultimo Festival di Locarno trova fra l’altro un’opera brasiliana, un film costaricano, uno croato. Il cinema è tutt’altro che morto, anche se non produce un ‘Lawrence d’Arabia’.
Non si rischia che i film costaricani restino nel recinto dei festival?
Oggi rappresentano la vitalità del cinema. La domanda è un’altra: che fine ha fatto quel pubblico che negli anni ’90 andava a migliaia anche a vedere Kieslowski. Perché non si è rinnovato. Parlo di chi frequentava cinema e teatri e comprava tanti libri come parte integrante dell’esperienza sociale. È un sostrato che andrebbe ricostituito. Ma sottolineo: senza nostalgia.
Come si fa a non provarne se si pensa a ‘C’era una volta il West’?
Quel cinema non è più ipotizzabile perché ha perso il monopolio della mitopoiesi. Quello di Leone era il poema lirico di un’epoca. Il cinema di oggi non può che essere più piccolo. Non per qualità ma perché, al di là di alcune uscite hollywoodiane, sono mutate le possibilità produttive. Il cinema internazionale deve risorgere con le specifiche voci di ogni paese, con la diversificazione. Compito dei festival è scovare avvisaglie di nuove aurore. I capolavori assoluti emergeranno magari fra sei o sette anni. È una fase di passaggio e la storia si ripete: anche ‘Roma città aperta’ non fu salutato subito con entusiasmo, non era più il cinema glamour degli anni trenta ma il segno di un mondo che dilaniato dalla guerra usciva cambiato.
Cinema contro cinema?
Spesso il grande cinema si è fatto contro quello che lo precedeva. È una storia di fratture. Per carità, le rassegne di autori del passato mi divertono e sono necessarie, ma resto contrario a celebrarle per svalutare il cinema di adesso come privo di futuro. A Locarno puntiamo sulle opere che fanno presa sull’attualità, sui rischi dei nuovi linguaggi. Il cinema è arte del presente. Bisogna farsi trovare là dove si manifesta. Nel 1946 il Festival di Locarno intercettò per primo il neorealismo.
Le piattaforme non le fanno paura?
Per nulla. Si può parlare male di Netflix però nessun altro avrebbe prodotto ‘The Irishman’. Giudichiamo piuttosto la qualità delle opere e cerchiamo di capire come funziona l’economia delle piattaforme, se possono venire incontro non solo ai grandi nomi ma al cinema emergente. Ci sono piattaforme dedicate a generi specifici o al cinema di culto, che amplificano le possibilità anche per una cinefilia giovane e agguerrita che vive online e ha sviluppato gusti ambiziosi. Non credo che le varie forme di fruizione si escludano l’una con l’altra: basti pensare a Shawn Levy, il regista di ‘Una notte al museo’, e ai suoi successi con ‘Free Guy-Eroe per gioco’ e la serie tv ‘Stranger Things’. Un autore può bilanciarsi tra i progetti e capire dove realizzarli con più rapidità.
Però la visione domestica è un conto e la sala cinematografica un altro.
Certo, è come ascoltare musica a casa o stando sotto il palco di un concerto. È un’esperienza estetica che non sarà mai sostituita, anche nel suo potere formativo. D’altra parte tutta la storia del ventesimo secolo è andata verso una semplificazione della trasmissione e della fruizione. Forse la cosa giusta è non assolutizzare le esperienze.
Come le si accese la passione per il cinema?
Come una forma di disubbidienza e discontinuità con i valori familiari. Per un ragazzo che viveva in un paese del Beneventano, già entrare nell’atrio di quelle sale di seconda visione, fra le locandine sgargianti, voleva dire partecipare a un altro mondo. Non ricordo specifiche folgorazioni, ma dopo ‘Medea’ di Pasolini la notte restai sveglio cercando di capire cosa avevo visto.
Come diventò il primo italiano a studiare davvero il cinema di Hong Kong?
Ebbi il vhs di ‘The killer’ di John Woo da un amico che stava traslocando. Malgrado la pessima qualità, quando cominciai a guardarlo scoprii che il regista da me sempre sognato già esisteva e non lo sapevo. Una follia sincretica tra il melodramma di Matarazzo, Jean-Pierre Melville e Brian De Palma. Non mi colpì per la matrice postmoderna o l’ironia, ma per la serietà. Woo, come avrei compreso dopo, non rappresentava un inizio ma il fulgido terminale di un cinema, di un luogo. E avrebbe contribuito a dare nuova vita a Hollywood dove i pixel sostituirono il wirework artigianale. Non a caso i Wachowski chiamarono l’hongkonghese Yuen Woo-ping come coreografo. Il cinema è grande se sa andare avanti.