Agosto col Nobil Giuoco - 4
Gli scacchi sono romanzi
Più delle mosse possono le storie. Dalla rivincita cercata e mai ottenuta da Capablanca alla morte misteriosa del suo rivale, il cattivissimo Alekhine. Da Marotti, onorevole ultimo cent’anni fa a Londra, al grande Mariotti
Ecco quattro ragioni per cui gli scacchi sono tutt’altra cosa dal cricket. Non che sia possibile sbagliarsi, ma meglio precisare. La prima: il cricket si gioca su un campo aperto, dove si muovono esseri umani; gli scacchi si giocano su una scacchiera, con pezzi di legno. La seconda; a cricket si gioca con una mazza e una palla; a scacchi, di solito, no. La terza: per una partita di cricket ci vogliono ventidue giocatori; a scacchi, ne bastano due. La quarta e ultima: io non so giocare a cricket.
L’io in questione è l’io di Magnus Carlsen, e quello di sopra è un suo tweet di qualche ora fa. Ricorda un racconto di Achille Campanile sugli asparagi, l’immortalità dell’anima e quel che avrebbero in comune (risposta al termine di una comparazione scrupolosa: assolutamente niente), ma trattandosi del campione del mondo di scacchi, fra i più forti giocatori di sempre, è vero: fa differenza se Egli giochi a cricket oppure no.
Né Carlsen è il primo scacchista che la mette in prima persona e arrischia qualcosa di molto somigliante a “l’État c’est moi” del Re Sole, Luigi XIV. Per esempio Efim Bogoljubov, straordinario giocatore tedesco degli anni Venti, soleva dire: “Quando sono Bianco vinco perché ho la prima mossa; quando sono Nero vinco perché sono Bogoljubov”.
Che poi non è vero che andasse sempre così, naturalmente. Nell’importante Torneo di Londra che si disputò giusto cent’anni fa, nell’estate del 1922 – c’è qualche motivo per celebrare la ricorrenza, lo dirò più avanti – Bogoljubov arrivò solo quinto, e perse quattro partite. La vittoria arrise al campione del mondo, il cubano José Raúl Capablanca, alla sua prima uscita dopo la conquista del titolo. Dietro di lui si piazzò colui che lo avrebbe sconfitto nel successivo match per il titolo mondiale, Alexander Alekhine. Poi Milan Vidmar, poi via via tutti gli altri. Fino al sedicesimo e ultimo, l’italiano Davide Marotti, fresco vincitore del primo campionato italiano di scacchi, che raccolse la miseria di un punto e mezzo: quattordici sconfitte, una patta e una vittoria. Nel fondamentale “La storia degli scacchi in Italia. Dalle origini ai giorni nostri” di Adriano Chicco e Antonio Rosino (Marsilio 1990), sono riportate le parole di cortesia usate dal presidente della Federazione scacchistica inglese, Leonard P. Rees, che in verità suonano come una amabile presa in giro del malcapitato campione italiano: “E’ stato un grande piacere conoscere il professor Marotti [professore napoletano di filosofia: non voglio nascondere il dato biografico], e posso assicurare che tale piacere, insieme alla stima, si è accresciuto di giorno in giorno, nel corso del torneo, di fronte all’indomabile coraggio e alla tenacia da lui dimostrati nei rovesci, che lo hanno infine portato a registrare una buona vittoria”.
La vittoria giunta alla fine era effettivamente buona, essendo stata ottenuta contro un giocatore assai forte, Eugene A. Znosko-Borovsky: peccato sia stata una sola. Ma questo elogio dell’ammirevole perseveranza di Marotti non suona ahimè molto diverso dalle parole di incoraggiamento che si rivolgono ai genitori dell’alunno i cui risultati scolastici non sono particolarmente brillanti: “Però si applica”.
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Ma gli italiani si applicavano davvero? Voglio dire: nutrivano e nutrono un interesse vero per il gioco, vi si dedicano con lo stesso impegno e lo stesso sforzo organizzativo dei francesi, che so, o dei tedeschi? Le storie degli scacchi hanno, in età moderna, alcuni passaggi obbligati. Uno premia in particolare l’Italia, ma è parecchio risalente: nel Seicento, il giocatore più famoso in Europa è un calabrese, Gioachino Greco. Il suo libro, “Trattato del nobilissimo gioco de scacchi”, si ritrova citato persino ne “Le confessioni” di Jean-Jacques Rousseau: “Compro una scacchiera, compro il Calabrese, mi chiudo nella mia stanza, vi passo giorni e notti a tentare di mandare a memoria tutte le combinazioni, a conficcarmele in testa volente o nolente, a giocare da solo senza tregua e senza fine”, ma alla data in cui il filosofo ginevrino scrive queste parole il paese scacchisticamente più avanzato non è più l’Italia, se mai lo è stato, bensì la Francia di François-André Danican Philidor (quanto a Rousseau, altro che senza fine: non ci capì un’acca e lasciò ben presto perdere).
Dopo la Francia, nel corso dell’Ottocento, il primato passerà a inglesi e tedeschi, mentre l’Italia scivolerà indietro. Emblematica è la vicenda del suo giocatore più rappresentativo all’epoca, Serafino Dubois, che si prese non poche soddisfazioni a livello internazionale e tra queste anche un significativo piazzamento londinese, nel 1862, quando giunse quinto (non ultimo, come sessant’anni dopo capitò al filosofo Marotti), addirittura davanti a Wilhelm Steinitz, più tardi incoronato primo campione del mondo. Dubois, però, giocava con regole diverse da quelle adottate negli altri paesi europei. Quando si recava all’estero, era quindi costretto ad adeguarsi, e ci volle qualche decennio perché l’Italia superasse il gap regolamentare. L’intero movimento scacchistico, non solo l’ottimo Serafino Dubois, risentì naturalmente di questo ritardo.
Stessa cosa nel torneo di Londra del 1922: il tempo di riflessione adottato, un’ora per venti mosse, era diverso da quello in uso in Italia, dove un’ora era il tempo concesso per compiere quindici mosse. E dunque: come giocatore, il povero Marotti non era gran che (anche come filosofo, in verità: la storia della disciplina non mi pare ne serbi traccia), ma di certo non poteva aiutarlo la lontananza dai circuiti internazionali e una diversa abitudine di gioco.
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La morale della favola è nota, vale per l’Italia tutta intera e vale pure per l’Italia scacchistica: le glorie del passato non bastano, se poi la modernizzazione arriva tardi, e a fatica. Ma siccome siamo ad agosto, e ad agosto compie gli anni – settantasei, e gli facciamo gli auguri con un bel diagramma, in ricordo della sua partita più memorabile – il più forte (e il più irriverente) giocatore italiano del Novecento, il fiorentino Sergio Mariotti (con la “i”, dettaglio decisivo almeno quanto la iota che agli inizi dell’era cristiana distinse definitivamente il Simbolo niceno dall’eresia ariana), di morale ne possiamo trarre pure un’altra. Mariotti è stato il primo, e per molti anni anche l’unico italiano a fregiarsi del più alto titolo scacchistico, quello di Grande Maestro. Oggi che il titolo è un po’ inflazionato, e di grandi maestri italiani ce ne sono una ventina, si suole distinguere l’élite dei super GM – tra i quali, purtroppo, non ci sono italiani – dagli altri Grandi Maestri; quando però Mariotti lo ottenne, nel 1974, il club era decisamente più esclusivo. Bene, in quel fatidico 1974 Antonello Venditti stava lavorando alacremente all’album “Lilly” (uscirà l’anno dopo), quello di “Compagno di scuola / Compagno per niente / Ti sei salvato / O sei entrato in banca pure tu?”, e no, Sergio Mariotti, non si salvò: nel 1974 entrò in banca pure lui. Continuò a giocare, ma non potendo dedicarsi a tempo pieno agli scacchi non spiccò mai il volo verso l’Olimpo, pur mantenendosi ancora a lungo ad alti livelli.
E questa è l’altra morale: non che la vita dell’impiegato in banca rappresenti una sconfitta esistenziale – come nel racconto di Giuseppe Pontiggia, “La morte in banca”, che è d’obbligo ricordare perché pochi scrittori italiani hanno amato gli scacchi come Pontiggia: metteteci Bufalino, Maurensig e da ultimo Fabio Stassi –, ma che l’orizzonte moderno dell’agire razionale suppone organizzazione, professionismo, specializzazione. Dilettantismo e improvvisazione non ti fanno andare abbastanza lontano.
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Torniamo all’anniversario: Londra, agosto 1922. Marotti (senza la “i”) arriva ultimo, Leonard Rees lo prende in giro e José Raúl Capablanca, campione del mondo in carica, vince il torneo. E propone le ventuno regole per disciplinare i match con in palio il titolo mondiale (ecco la ricorrenza da celebrare). Quante partite, con quale cadenza, con quale posta in gioco, con quale caparra. E poi l’organizzazione, l’arbitro, i secondi: cose così. Sulle quali però non era stato facile mettersi d’accordo, in assenza di una Federazione internazionalmente riconosciuta. Le regole servirono effettivamente, per lo svolgimento di uno dei match mondiali più famosi nella storia degli scacchi: quello di Buenos Aires del 1927, durato quasi due mesi e la bellezza di trentaquattro partite. E benché prima di quella data lo sfidante Alekhine non avesse mai sconfitto il cubano in una partita ufficiale, la vittoria, a sorpresa, gli arrise. Capablanca chiese ovviamente la rivincita, proponendo però di mettere un tetto al numero di partite da giocare, ma il nuovo campione, peraltro soprannominato, con qualche ragione, “il sadico degli scacchi”, non ne volle sapere: ho giocato secondo le regole da lei stesso stabilite – conquista il titolo chi vince sei partite, non contano le patte – ora lei vuole cambiarle, mi dispiace ma non sono d’accordo.
C’era poi il non piccolo problema della borsa, prevista dalle London Rules ma che dopo il crollo di Wall Street non era facile mettere insieme, per lo sfidante, sicché il match non si disputò. Capablanca continuò a giocare, a vincere tornei, a sperare in una rivincita, ma l’occasione non arrivò mai. Con una breve parentesi di un paio d’anni (in cui perse lo scettro a favore dell’olandese Max Euwe), Alekhine rimase campione mondiale fino alla morte, continuando a giocare nella Germania nazista e, purtroppo, a macchiare il suo incredibile talento con odiosi articoli antisemiti. Dopo la fine della guerrà negò che fossero suoi gli articoli apparsi a sua firma, ma non poté negare la collaborazione con le autorità naziste. Morì a Lisbona, nel 1946, all’età di 53 anni, forse per mano dei servizi sovietici.
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Sui nomi che sono fin qui comparsi non mancano i libri. Non dico la letteratura scacchistica, ottima e abbondante, dico la letteratura in genere. E siccome siamo all’ultima puntata di questo tuffo non nel mare d’agosto ma nell’infinito mare degli scacchi, e poiché sospetto che più che gli scacchi – le partite, le mosse, le combinazioni – possono le storie, le sfide, i singolari destini dei campioni, a volte esaltanti, spesso terribili, ve ne metto qualcuno qui, di buon auspicio: su Capablanca Gesualdo Bufalino stava lavorando, la morte gli ha impedito di completare il libro. Quel che abbiamo di “Shah Mat. L’ultima partita di Capablanca” è però pubblicato nel secondo volume delle “Opere. 1989-1996” (Bompiani 2007). Ma anche Fabio Stassi ha scritto un gran bel romanzo, il cui titolo la dice lunga: “La rivincita di Capablanca” (Minimum Fax 2010). Sul suo rivale, il cattivissimo Alekhine, e sulla sua morte misteriosa, ha romanzato Paolo Maurensig (Teoria delle ombre, Adelphi 2015), ma è uscito recentissimamente ed è degno di menzione anche “La diagonale Alekhine”, di Arthur Larrue (Neri Pozza 2022). Di Pontiggia, infine, bisognerebbe segnalare quasi tutta l’opera, piena zeppa di riferimenti al gioco. Ma se proprio devo scegliere, suggerisco di abbordare i suoi saggi a tema scacchistico, comparsi nelle raccolte “Il giardino delle esperidi” (presso Adelphi) e “L’Isola volante” (Presso Mondadori). Per invitarvi, infine, a leggere Achille Campanile non c’è bisogno che dica nulla, mentre su Carlsen e il cricket, su Marotti e Mariotti, non mi risulta siano ancora stati scritti romanzi (però per Mariotti un po’ di materiale e qualche bravata la si può trovare qui).
Se invece siete arrivati fin qui con un vago desiderio di seguire la pratica agonistica corrente, chi vince e chi perde e insomma i campioni di oggi, allora vi accontento con qualche spigolatura. La prima: è in corso a Praga il campionato europeo femminile, che si concluderà il prossimo 31 agosto. In assenza delle ucraine, favorite sono le georgiane; siamo a metà torneo, e tra le italiane sta ben figurando Marina Brunello, nel gruppo di testa.
La seconda: si è concluso mercoledì scorso il forte torneo master di Abu Dhabi, e la new wave indiana, sollevatasi nelle recenti Olimpiadi, prosegue: la vittoria è andata infatti a un giovanissimo Arjun Erigaisi, che grazie alle ultime prestazioni entra con un gran balzo nel club dei super-GM, quelli con Elo superiore a 2700.
La terza: Magnus Carlsen, che non difenderà più il titolo mondiale ma che continua a giocare, in questo mese di agosto ha fatto in tempo a vincere un altro torneo: la FTX Crypto Cup. La vera notizia è però che ha perso lo scontro diretto contro un altro, terribile ragazzino indiano, ancora più giovane, Rameshbabu Praggnanandhaa, che quest’anno lo ha battuto ben tre volte, nel gioco rapid.
Da ultimo. Se, scendendo di parecchi gradini nella scala dei valori scacchistici, volete vedere davanti alla scacchiera, cent’anni dopo il povero Marotti, un altro filosofo napoletano, allora potete recarvi a Pianoro, provincia di Bologna, il prossimo 9 ottobre: torneo a squadre rapid, il più affollato d’Italia. Si gioca tutto il giorno e si mangia discretamente. Regna il dilettantismo, ovviamente, ma anche il divertimento. Lo sport più violento che esista, sublime teatro di sadismi, narcisismi e sfottò, credetemi: può anche essere il più divertente.
Ecco gli altri tre episodi della serie:
Perché Leonardo passa a Brera