le case dei libri non sono di carta
Ogni libro è illuminato
Ultimo è arrivato Eco, poco prima i libri per bambini ucraini. La Biblioteca Nazionale Braidense non smette di vivere. Perché è nata nel segno dei Lumi e di Milano: nulla si distrugge, con tutto si costruisce
Per il Foglio, le biblioteche sono luoghi da scoprire, sono la storia e la cultura di chi le ha edificate e di chi le vive ogni giorno. Abbiamo affidato ai nostri scrittori un viaggio del cuore alla scoperta delle più belle biblioteche italiane. E il viaggio si conclude qui, con la Braidense. Il 13 luglio abbiamo pubblicato “Leggere nella casa di vetro” di Claudio Giunta, il 20 luglio “Il granaio delle Scienze” di Marco Archetti, il 27 luglio “La tessera numero 54 sono io” di Paolo Nori, il 3 agosto “Libri scampati alla battaglia” di Gaia Manzini, il 10 “Belle époque in sala stampa” di Francesco Palmieri, il 18 “Un elogio fiorentino” di Edoardo Rialti.
L’ultimo addendo, il nuovo guadagno, la nuova Wunderkammer che impreziosisce di un altro gioco di specchi strabiliante il labirinto vivente delle grandi scaffalature in noce è lo “Studiolo”. Un nuovo luogo in cui perdersi per ritrovare il filo, un nuovo ospite con cui dialogare. perché una biblioteca è questo: un organismo vivente, che non smette di crescere. E’ lo “Studiolo” di Umberto Eco, l’alessandrino che si fece milanese (va bene, transitando da Bologna, Alma Mater, uno dei tanti sentieri che si biforcano) e la cui casa-biblioteca, nella casa vicino al Castello, fa ormai parte dei miti perduti per bibliofili (era “la Casa di Umberto Eco”), come la biblioteca di Ipazia ad Alessandria. Un accumulo, un nuovo addendo, una appropriazione non indebita, tutt’altro: ma intima e necessaria. Alla Biblioteca Nazionale Braidense di Brera è da poco stato allestito, mercé la generosa famiglia e il gran lavoro di tessitore di James Bradburne, lo Studiolo di Umberto Eco.
Un’ottantina di volumi esposti in teche, e (verrebbe quasi da dire: soprattutto) i ninnoli e gli amuleti di questo intellettuale illuminato, illuminista e perciò superstizioso: persino i testicoli di cane e le miniature dei Peanuts di cui aveva disseminato la sua personale “Bibliotheca semiologica, curiosa, lunatica, magica et pneumatica”, così l’aveva battezzata, ricca anche di libri antichi e preziosi, tra cui 36 incunaboli (i “libri in fasce” stampati nel Quattrocento, i neonati di Gutenberg) tra cui la Hypnerotomachia Poliphili stampata da Aldo Manuzio nel 1499, come dire la Gioconda degli stampatori (e dei bibliofili). Ora lo studiolo ricostruito fa parte della Braidense, la espande e la arricchisce un altro po’ nello spazio e nel tempo. Seguendo un’altra volta ancora quel metodo illuminista ed enciclopedico – e molto milanese, cioè concreto e pragmatico, che non butta mai via il lavoro degli altri – con cui è la grande biblioteca della modernità meneghina è nata e cresciuta. E con cui, in verità, è cresciuto tutto il complesso di Brera, la Pinacoteca e l’Osservatorio e l’Orto botanico e l’Accademia: un mattone di sapienza, di cultura e di bellezza dopo l’altro.
Brera, che tutto questo custodisce nel cuore quasi nascosto di Milano (ma il cuore è un luogo delicato e va ben protetto, no?), nel reticolo sobrio delle vie che profumano della città austriaca, di un gran Settecento che ha trasformato Milano in una città d’Europa. Un cuore che è quasi sconosciuto anche a molti milanesi. Perché, come tutto a Milano, nemmeno Brera si (sovra)espone, non fa la voce grossa. Brera è pensierosa e un po’ discosta (“Ah, vai fino alla Braidense?”, si diceva e si dice ancora agli studenti umanisti che la frequentano per le tesi di laurea, per gli archivi. Come se fosse un castello lontano, una città proibita). Ma chi scopre Brera, e salendo lo scalone d’onore varca la soglia della Biblioteca, entrando nella grande sala di Lettura e la Sala Teresiana, tra le monumentali scaffalature in radica e noce del Piermarini che quasi incutono timore, oppure invece inducono a respirare a pieni polmoni quell’aria buona di essenze e carte, chi entra qui insomma, studioso studente o visitatore che sia, trova qualcosa di unico. E se alza il naso ad annusare il tempo passato, anche così può fare esperienza di quel metodo di Milano, di mai buttare e su tutto costruire: i grandi lampadari di Boemia infatti, sono stati ricostruiti con i resti di quelli distrutti dai bombardamenti nella sala delle Cariatidi a Palazzo reale.
Questo è Brera, già al primo colpo d’occhio. Un luogo che porta dritti al cuore d’Europa, all’età dei Lumi da cui Milano, dopo la sua fulgida Età di mezzo e il suo Rinascimento leonardesco, è stata plasmata in profondità. Con metodo e con energia. Da quando nel 1770 Maria Teresa l’illuminata la volle, la Braidense, perché a Milano non c’era “una biblioteca aperta ad uso comune di chi desidera maggiormente coltivare il proprio ingegno, e acquistare nuove cognizioni”. E un poco, forse, anche perché l’altra biblioteca-gioiello, l’Ambrosiana fondata centocinquanta anni prima dal cardinal Federigo, sapeva troppo di un potere di chierici e santi, coi suoi tanti manoscritti antichi ma i pochi libri stampati. La Braidense nasceva invece europea, viennese, sotto l’aquila d’Asburgo che aveva fatto un patto con la dea ragione. Ma non nasceva dal nulla, proprio no. Se c’è una scoperta che vale la pena fare, qui, è imparare a decifrare la Braidense come un labirinto, riconoscerne la stratificazione, accumulo per accumulo, tempo per tempo. Perché persino le biblioteche, a Milano, si offrono con contegnosa ritrosia. Ma come tutto, a Milano, è costruito su quel che c’era, senza rinnegare niente ma tutto trasformando.
La “braida”. Se si scavasse ancora oggi sotto tutto, ma non si può più, si troverebbe ancora lei, la “braida”. Il nome Brera viene da lì, latino o todesco medievale: un terreno incolto, ortaglia o piccolo pascolo. Secondo qualcuno anche “fondo adiacente alla città”, discosto. Un luogo di cui un rabdomante milanese adottivo come Luciano Bianciardi avvertiva probabilmente il passato, se nella Vita agra ne dà una descrizione che lasciamo parlare da sola: “Tutto sommato io darei ragione all’Adelung, perché se partiamo da un alto-tedesco Breite il passaggio a Braida è facile, e anche il resto: il dittongo che si contrae in una e apertissima, e poi la rotacizzazione della dentale intervocalica, che oggi grazie al cielo non è più un mistero per nessuno… Le altre ipotesi, cioè che all’origine ci sia un basso latino Braida, o un latino classico Praedium, hanno per me interesse minore, e in quanto al significato concordano tutte, comunque. Campus vel ager suburbanus in Gallia Cisalpina. Insomma uno slargo, uno spiazzo vicino all’abitato, un pezzo di verde intra moenia, dove si tenevano le fiere di bestiame e magari ci bazzicavano le prostitute, a notte. Ora, siccome accanto allo spiazzo nostro c’erano le case di un tal Adalgiso Guercio, la gente continuava a dire la Braida del Guercio”.
Poi la Braida del Guercio passò di mano, nel 1178 fu venduta ai frati Umiliati, ordine riformato dedito al ben fare e al ben lavorare la lana, che misero su convento e chiesa e – lavoratori come tutto il popolo meneghino e religiosamente riformato, anzi a volte persino patarino – acquisirono sempre più ruolo e ricchezza. Al culmine della loro gloria, la chiesa di Santa Maria di Brera era una delle meglio frequentate e decorate, ci dipinsero il Luini e il Foppa e il Bramantino, e Zenale i meravigliosi pannelli d’organo: gli “Angeli musicanti” che dopo lunga e avventurosa storia sono da poco tornati, quasi miracolosamente, in Pinacoteca. Ma questa è un’altra storia. La nostra racconta che nel 1571, dopo una vera e propria guerra tra il (contro)riformista Carlo Borromeo e i troppo potenti, e poco obbedienti, Umiliati, l’ordine fu sciolto. Al posto degli Umiliati arrivarono i Gesuiti. Che abbandonarono la lana e aprirono scuola, d’ogni materia e disciplina, che tanto crebbe da richiedere presto un edificio a sé. Sopra la vecchia Braida iniziarono così ad accumularsi i libri, fondi antichi e scientifici. Un paio di secoli e poi anche i Gesuiti furono soppressi, e iniziò la storia del governo laico di Brera. Ma i Lumi riformisti viennesi, consiglieri del trono e non suoi feroci antagonisti, ebbero il genio di non mozzare le teste alle statue, come a Parigi, ma di valorizzare quei tesori che i coltissimi Padri avevano dovuto abbandonare.
Oggi la Braidense è biblioteca di rango nazionale, la terza italiana per i fondi antichi. E siccome i libri non stanno fermi, due anni fa è stato concluso il lavoro di catalogazione e digitalizzazione degli incunaboli, oltre duemila e trecento, ora inseriti nel database internazionale Mei (Material Evidence in Incunabula). Un salto deciso nel futuro degli studi. Per accumulare senza buttare ci volle metodo. Dalle biblioteche dei gesuiti milanesi arrivarono i primi 34 mila volumi. Nel 1778 fu acquistata e incorporata la biblioteca di Albrecht von Heller, medico e botanico svizzero di gran fama. Così nel 1786 aprì la Regia Imperialis Biblioteca Mediolanensis. La soppressione delle congregazioni religiose fu una miniera per incamerare le ricchezze delle antiche librerie di conventi e monasteri. Poi arrivò Napoleone, con quella decisiva idea in testa: trasformare Brera in un Louvre cisalpino. La ricchezza della Pinacoteca è, in parte, dovuta proprio alle razzie francesi in mezza Italia. Come un gemello diverso, anche la biblioteca continuò a crescere. Così il luogo che fu degli Umiliati e dei Gesuiti divenne centro di cultura pubblico, nel segno del Mondo nuovo scaturito dalla soppressione del Regime antico. Per poi diventare, nell’Ottocento, un patrimonio nazionale. Una grande biblioteca di carattere generale, in cui trovavano casa i corali miniati della Certosa di Pavia e i libri scientifici, la raccolta del Gabinetto Numismatico, la raccolta Lattes di opere di cultura ebraica. Fino al fondo manzoniano, uno dei gioielli della corona della biblioteca milanese, con il manoscritto autografo del Cinque maggio, grazie di tutto Bonaparte, donato nel 1885.
Il labirinto di Brera è un luogo da cui passano ogni anno migliaia di persone, ed è uno scrigno da cui si possono estrarre meraviglie vecchie e nuove. La Bibbia Monumentale stampata a Magonza nel 1462, pochi anni dopo quella di Gutenberg, ma su pergamena e non ancora su carta, o un incunabolo di cui si conosce solo una copia al mondo, e che narra la leggenda dell’Anticristo; oppure un rarissimo racconto “giornalistico” anonimo del 1792, Giornale circostanziato di quanto ha fatto la Bestia Feroce nell’Alto milanese dai primi di luglio dell’anno 1792 sino al giorno 18 settembre, che racconta la paurosa storia della caccia a un lupo antropofago che terrorizzò Milano. Il gioco del labirinto che cresce (è un “cantiere dei libri”), che aggiunge a poco a poco una stanza o un gradino, non si ferma mai. Oggi c’è la guerra in Ucraina, c’è l’invasione russa. Ma solo due anni prima, quasi intuendo il futuro, alla Braidense è stata donata una collezione unica e strepitosa (è stata in mostra nel 2020 e ora è disponibile la consultazione digitale sul sito), la Collezione Adler di libri per l’infanzia dell’Unione sovietica. Storia incredibile, che inizia con una valigia malconcia di pelle. Gli architetti Hans Edward e Hedwig Adler erano fuggiti in Inghilterra dalla Germania nel 1939.
Nel 1986, sgombrando il loro appartamento, la figlia la trova in soffitta: dentro ci sono 257 libri sovietici per bambini, di cui 169 in russo, 85 in ucraino e tre in yiddish, per la maggior parte pubblicati fra la fine degli anni Venti e il 1933. Sono stati donati proprio alla Braidense. Perché i libri sono ponti di cultura. Allo scoppio della guerra, la bibliotecaria Yuliia Semyriad è fuggita dall’Ucraina, Milano l’ha accolta e ora lavora come mediatrice culturale qui alla Braidense, dove ha organizzato incontri e attività per le scuole in occasione della settimana dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Tematica su cui è attivo anche Circi, il Centro Internazionale di Ricerca sulla Cultura dell’Infanzia che dal novembre 2020 la Braidense ha avviato. Del resto il direttore del comlesso di Brera James Bradburne, che condivide la sua visone con il direttore scientifico della Biblioteca, Marzia Pontone, quando parla della Braidense ama citare proprio il suo caro Umberto Eco: “Il libro non è una pietrificazione di memoria, ma una macchina per produrre interpretazione. Quindi una macchina per produrre interiorità”.
Diceva Marguerite Yourcenar che le biblioteche sono “granai pubblici capaci di ammassare riserve contro l’inverno dello spirito”. Una particolarità virtuosa che è l’anima della Braidense – da Maria Teresa, da Napoleone, ma di certo c’è in profondità lo zampino di Ignazio, e anche la pragmatica lena lavoratrice delle lane degli Umiliati – è quella di non essersi mai concepita come un deposito di libri, ma come un cantiere aperto, mutevole e in dialogo con il mutare dei tempi. Nei progetti del futuro, l’obiettivo della Braidense è diventare perciò “la biblioteca ideale”, concetto ancora una volta regalato da Eco, che questo luogo considerava una casa. Un punto di riferimento nazionale e internazionale per iniziative, progetti, mostre che possano difendere, valorizzare, conservare e promuovere la lettura e il libro. Anche oltre il suo inestimabile patrimonio di un milione e mezzo di volumi.
Nel mondo digitalizzato, dove anche le biblioteche imparano a mettere tutto il loro patrimonio a disposizione di un clic, l’ambizione di Brera è rimanere un luogo in cui i libri continuano a vivere. Una proposta culturale, non solo di conservazione. Quando si entra nel cortile d’onore di Brera, col Napoleone di Canova là dritto in mezzo, che sembra trasmette a chi vi accede il saluto di una nobile e ben educata razionalità, cifra ideale dell’istituzione, e salendo le maestose scale si incomincia a respirare quel profumo di carte e di libri, si capisce un po’ di più anche perché Milano è Milano.