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Quel maledetto John O'Hara

Marco Archetti

Un semibullo odiato da tutti e dall’aria dannata. Ma con il talento nella scrittura. Un trittico di racconti pubblicati sul New Yorker parla di un pezzo di America. E di un’esistenza sempre col coltello tra i denti

Comprarsi una Rolls Royce in attesa del premio Nobel: John O’Hara ha fatto questo e altro. Anzi, a dirla fino in fondo ha fatto tutto, proprio tutto, tranne vincere quel premio, e chissà che fine ha fatto la Rolls Royce. Perché John O’Hara, per tutta la vita, ha sprecato la vita litigando. E ha lavorato senza sosta alla caduta e allo schianto della propria reputazione, una reputazione che nemmeno i 247 (su 400 in tutto) racconti pubblicati sul New Yorker sono bastati a emendare – John Cheever, John Updike e Mavis Gallant ne hanno pubblicati molti di meno, e sono lì a dimostrare che le dimensioni numeriche contano fino a un certo punto. “Tutti hanno un aneddoto che racconti di quanto O’Hara fosse coglione, arrivista, orrendo”. Poi aggiungeva: “Credo che sia uno scrittore sottovalutato perché odiato da chiunque”, e lo posizionava, nella gerarchia dei valori letterari, una tacca abbondante sopra Francis Scott Fitzgerald.

 

Dopotutto stiamo parlando di uno scrittore da sedici romanzi, tra cui almeno tre successi debordanti (il primo, il secondo, il quinto e un poco anche il terzo, per un totale di quindici milioni di copie vendute in tutto), con all’attivo una manciata di film tratti da, e moltissime collaborazioni con riviste letterarie di rilievo – poi sì, anche di un semibullo con una strabiliante facilità alle risse, alle bevute e ai matrimoni complicati (tre, uno peggio dell’altro). Non bello – sguardo vagamente asimmetrico, mento pronunciato e orecchie a cotoletta –  ma dannato di certo, massacrato da un feroce senso di inferiorità e dotato di una leggendaria, ridicola autostima e di una patologica vendicatività, vanesio e reazionario fino all’assurdo – se la prese con Martin Luther King e con tutte le istituzioni accademiche che non gli riconoscevano la grandezza conclamata che, nel frattempo, si conclamava da sé –, snob per posa e dispetto, John O’Hara non era uno che nascondeva ciò che pensava. E infatti diceva di meritare solo i massimi riconoscimenti, per lo meno dopo la morte di Hemingway, compreso quel Nobel che mai conquisterà.

 
Lista dei posti di lavoro da cui John O’Hara fu cacciato: il Journal della natia Pottsville, Pennsylvania; il Courier di Tanaqua; l’Herald Tribune, il Time, il New Yorker di cui sopra (casus belli, la recensione sfavorevole del suo quarto romanzo); l’Editor and Publisher, il Daily Mirror, il Morning Telegraph, l’ufficio stampa della Warner Brothers, le società di pubbliche relazioni di Benjamin Sonnenberg e il Bulletin-Index, una rivista di Philadelphia. Come si dice, una carriera di tutto rispetto. Un curriculum da manqué di rango e perfino d’avanguardia, trattandosi, in fondo, di un grande vittimista: ricevette riconoscimenti (in vita e, glielo diciamo qui, anche post mortem) ma, secondo la sua opinione, sempre inferiori per quantità e qualità ai valori di cui si sentiva portatore nel mondo delle lettere americane.

 

Eppure Harold Bloom ascrisse al canone occidentale il suo “Appuntamento a Samarra” (Hemingway disse: “Se volete un libro di un autore che sa esattamente di cosa sta parlando e ne parla meravigliosamente bene, leggetelo”). Eppure vinse il National Book Award col suo “Ten North Frederick” (ci sono autori che avrebbero venduto la madre, lui ci andò vicino). Eppure Broadway gli chiese di adattare il suo “Pal Joey” per il palcoscenico (la versione teatrale verrà interpretata da Gene Kelly in prima edizione, poi ripresa al cinema coi volti di Frank Sinatra, Rita Hayworth e Kim Novak) e la Modern Library ha incluso l’opera tra i cento migliori romanzi in lingua inglese di tutti i tempi. Da quando non è più tra noi – poco più di cinquant’anni – è uno scrittore che, al circolo letterario dei Fantasmi dei Geni passati, potrebbe far saltare sul tavolo ben quattro corpose biografie.

 

Una di queste si intitola “L’arte di bruciarsi i ponti alle spalle”, e sono quei titoli che riassumono una vita. E d’accordo che ha ragione Woody Allen (“tra l’immortalità letteraria e un giorno in più nel mio appartamento, scelgo il giorno in più nel mio appartamento”), d’accordo anche che ciò che arriva dopo non risarcisce chi se n’è andato prima, ma è indubbio che la figura dello scrittore abbia richiamato un interesse sempre crescente, sebbene O’Hara non fosse uno sconosciuto nemmeno quando, dopo esser stato sbattuto fuori dal Journal di Pottsville, essersi trasferito a Chicago e New York e aver collezionato cinque o sei licenziamenti spettacolari, cominciò a pubblicare i suoi racconti.

 

Anzi, il successo gli arrise molto presto e gli concesse anche il bis: dopo “Appuntamento a Samarra”, opera maestra affacciata sul cavedio psicologico di una società soffocata da convenzioni e perbenismo, apparve “Venere in visone”, ispirato alla morte misteriosa di una giovane sulla spiaggia di Long Island. Ne trassero un film, prodotto dalla Mgm e diretto da Daniel Mann, che fece vincere l’Oscar a Elizabeth Taylor. Negli anni successivi O’Hara pubblicò numerosissimi racconti, tenne rubriche su riviste e giornali, si rovinò con le sue mani e con quelle scrisse anche il proprio epitaffio: “Meglio di chiunque altro ha raccontato la verità della sua epoca, la prima metà del Ventesimo secolo. Era un professionista. Scriveva bene e con onestà” (qualcuno, dopo anni, si risentirà: meglio di chiunque altro? era un professionista? scriveva bene?).


Il celebre incipit di un suo editoriale sul Newsday, minacciava così: “Vediamo di cominciare col piede sbagliato”. Ma la verità è che John O’Hara finì anche, col piede sbagliato. E si lasciò alle spalle dissapori, sensazioni sgradevoli e vivissime antipatie in barba al più trito de mortuis nihil nisi bonum, ma dovremmo anche ammettere che tanta dedizione andrebbe premiata: era un tipo che aveva l’ardire di pretendere un rimborso se una sua idea di racconto non veniva accolta da una rivista anche se per scriverlo – si vantava – gli bastavano un paio d’ore, e quando un suo editore pensò bene di dargli un consiglio – tagliare una frase – ne ricavò tre pagine di rampogne e smisurate vanterie a proposito del proprio inimitabile stile. Sempre col coltello tra i denti, ma perché?


Nato ai piedi degli Appalachi, John O’Hara sentirà addosso, per tutta la vita, la fuliggine inemendabile della sua nascita, opaca e non riscattata da frequentazioni adeguate e soprattutto da titoli autorevoli – “si può togliere il ragazzo dal carbone, ma non si può togliere il carbone dal ragazzo”, scriverà in “Appuntamento a Samarra”. Ed era storia nota al punto che, dopo averlo celebrato letterariamente, Hemingway lo ridicolizzerà pubblicamente, prendendosi gioco dei suoi complessi e dicendo: “Qualcuno faccia una colletta per mandare O’Hara a Yale”. Ma se sono la rabbia, il senso bruciante di rivincita, la consapevolezza di una propria presunta inferiorità; se sono lo svantaggio, l’ingiustizia percepita, l’amarezza e il senso di tradimento ad alimentare il motore la letteratura, insieme a un innegabile talento per “il suono” del mondo, anzi, di un certo mondo, O’Hara ha avuto di che far rombare i motori. Per capire quanto, basterebbe leggere anche solo lo splendido trittico di racconti per il New Yorker intitolato “Prediche e acqua minerale”, diviso nei volumetti “La ragazza nel portabagagli”, “Siamo di nuovo amici”, “Immagina di baciare Pete” e pubblicato nella traduzione di Vincenzo Mantovani. L’acume e la veste editoriale ce li ha messi Racconti edizioni, e la trilogia è davvero essenziale per capire non solo di cosa si parla quando si parla di letteratura americana ma, precisamente, qual è il mondo di John O’Hara, e dove porta.


Porta a Gibbsville, “città di terza categoria”, dritto dritto nella vita di Jim Malloy, una specie di Antoine Doinel della disillusione americana e dell’infezione dell’anima, qui raccontato in tre fasi, per trent’anni della propria vita. E se Gibbsville sta per la natia Pottsville, Jim Malloy sta per John O’Hara, ne è l’alter ego, il doppio, lo specchio, il deuteragonista biografico. Malloy è uno che si arrabatta, press agent di una grande azienda cinematografica marchiato da un passato (recente, troppo recente, come sempre i passati di gente come Malloy, con un accento fuoriluogo in molti luoghi) da cronista e compilatore di necrologi – quaranta righe per riassumere un uomo dopo un pomeriggio in archivio a rovistare (oggi ci si precipita sui post di Facebook). Uno che ha una vita tutta cinghia, ma che alla fine riuscirà a diventare uno scrittore di rango. Ne “La ragazza nel portabagagli” viene raccontato quando, galoppino a disposizione di Charlotte Sears, attrice da seimila dollari a settimana che parla per aforismi tipo “non si pianta mai il cinema, ci si ritira per forza”, scopre che la diva è in città per un’altra ragione che promuovere l’ultimo film. Così fiuta l’affarone e ci si butta.

 

Con “Immagina di baciare Pete”, storia della libertina Bobbie Hammersmith che si rassegna a unire il proprio destino a Pete McCrea, sposato per contrasto e per reazione, O’Hara scatta una foto di gruppo impietosa: Malloy ha perso anche le illusioni che non ha mai avuto e lo scrittore, dichiara in prefazione, vuole mettere tutto sulla carta finché è in tempo. “A cinquantacinque anni non ho il diritto di perder tempo”. Ne vien fuori un racconto di ambienti e di piccola provincia, di crudeltà e rassegnazione, di cinismo e rossetto sbavato. “Siamo di nuovo amici” chiude il tris e guarda indietro ai destini collettivi e alle vite individuali. Si apre con la morte e si chiude con la vita così com’è (“che cosa possiamo veramente sapere l’uno dell’altro, e perché dobbiamo fare una simile tragedia della solitudine?”). In mezzo scorre un fiume di gente, ma è tutto crepuscolo, tutta una cosmogonia mancata, un mondo che poteva realizzarsi ma no, e chissà perché – una specie di storia antieroica delle occasioni perse e della vita non consumata.


“Prediche e acqua minerale” non è un epifenomeno narrativo, ma un godibilissimo carotaggio di tutto il mondo di O’Hara. Un’opera, la sua, sempre squisitamente verbale, stenografata dalla realtà, inacidita per l’occasione e per l’occasione scaraventata giù dai crepacci della letteratura, letteratura che, nella sua massima espressione, proprio questo deve fare: non curarsi di nulla e men che meno delle conseguenze, far precipitare la realtà dentro un buco e guardarla mentre precipita. Tutti i personaggi di O’Hara stanno precipitando, forse si tratta davvero di una grande saga dei precipitati che, però, di dritto o di rovescio stanno a galla, smanacciano e, in qualche maniera, la maniera la trovano. Non si sentono finiti ma lo sospettano sempre, verrà in seguito Richar Yates a travolgerli definitivamente, a strozzarli col fallimento e a spingerli nella lotta impari contro il miserabile destino da uomini e donne senza alcuna qualità che l’autoinganno – in questo senso i personaggi yatesiani sono personaggi o’hariani che hanno perso quel briciolo di lucidità e però ci credono con più slancio, uno slancio patetico e scollegato dalla realtà. In O’Hara si arranca e si tira avanti perché così si deve fare, poca l’autoanalisi e la disperazione è sempre muta, inconsapevole, un brusio interiore che disturba le comunicazioni che ipocritamente ci si scambia.

 

E se Francis Scott Fitzgerald – altro autore cui O’Hara viene accostato per pigrizia, un bel po’ a casaccio – cerca sempre il lirismo keatsiano, se “Il grande Gatsby” è, in fondo, un poema cavalleresco, in O’Hara niente è lirico o cavalleresco, anzi, il lirismo è impossibile: tutti sembrano personaggi di sfondo anche quando sono al centro della scena, perché la sensazione è che il meglio si svolga altrove. “Tutto questo accadde trent’anni fa, un’epoca tanto remota per la gente di oggigiorno. La New York di oggi è diversa dalla New York di allora quanto la New York di allora era diversa da Londra”, scrive O’Hara ne “La ragazza nel portabagagli”, raccontando qualcosa che nessuno può ricordare. “Il fattore determinante nella nostra vita fu il proibizionismo, che ci trasformò tutti in fuorilegge e diede un tocco arcano, sottilmente cospiratorio, al semplice fatto di andare a cena fuori” – e sì, l’eroismo possibile è tutto qui, in tempi simili ai nostri, in cui ci si può permettere solo ciò che ci si può permettere. 
O’Hara sente tutto, registra tutto. E ci ricorda che il racconto è come la vita. “Il modo in cui le cose sono collegate l’una all’altra può passare inosservato se un avvocato o uno scrittore non richiamano la vostra attenzione”.

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