rime di "bellezza screziata"
La seconda vita di Gerard Hopkins, il poeta ignorato
“La sua complessa prosodia esprime il verso come canto, gesto fonico, colore sonoro, gemito, respiro”. In libreria la somma delle poesie composte tra il 1875 e il 1889 curata da Viola Papetti
La “collana bianca” einaudiana pubblica, a cura di Viola Papetti, la somma delle poesie composte da Gerard Manley Hopkins dal 1875 al 1889. Nato a Stratford, Essex, nel 1844, figlio primogenito di un ricco assicuratore marittimo, poi console delle Hawaii a Londra e filantropo, Hopkins è restato, per il breve tempo in cui è vissuto (morirà a Dublino a quarantaquattro anni) un poeta incompreso, quando non deriso. Troppo alieno e stridente il suo verso per l’occhio e l’orecchio ottocentesco. Cristiano devoto, si convertirà nel 1866 al cattolicesimo. Prende la decisione in un lampo. Con fermezza. Dopo aver concluso gli studi a Oxford, decide invece di entrare nella Compagnia di Gesù, disfandosi della maggior parte delle poesie giovanili. Da tempo, nei diari, aveva annotato con lapidaria severità sia i peccati commessi che la bellezza del creato. Lo splendore terrestre minacciato dall’uomo accompagna la sua visione poetica.
Ancora oggi, la sua tecnica versificatoria ci appare frammentata, contrappuntistica, puntinista. Basta scorrere le pagine della raccolta per rendersene conto. Un approccio, il suo, decisamente in linea (se non in anticipo) con alcune intuizioni di fine secolo: interesse per il discontinuo, atomizzazione delle parole a favore di suoni e colori; un’intraprendenza quasi cubista di cui Joyce farà tesoro. La versificazione si carica così di un dinamismo cromatico assai musicale, uno stile quasi telegrafico: “La complessa prosodia inventata da Hopkins esprime il verso come canto, gesto fonico, colore sonoro, gemito, respiro”, sottolinea Papetti.
Ne esce qualcosa di simile alle filastrocche infantili, o alle fughe musicali che lo stesso poeta componeva. Verso poetico e spartito musicale sembrano darsi appuntamento. Dichiarerà: “La chiave per la storia della musica moderna sta nel senso a cui la mia ricerca mira, ossia che l'armonia moderna non potrà nascere se non si libererà del vecchio sistema e della sua accordatura”. Un simile approccio è destinato a produrre incomprensione, ilarità. Nel 1876, riprende a comporre sulla spinta di un fatto di cronaca, il naufragio di un’imbarcazione, la “Deutschland”. Tra le vittime, cinque suore francescane. Ne esce Il naufragio della Deutschland.
La ricezione non è delle migliori. La rivista gesuita The Month nega la pubblicazione. L’amico di una vita e curatore delle sue opere, Robert Bridges, gli scrive che non l’avrebbe riletto neanche per denaro. Ma non finisce qui. “Dopo la prima lettura padre Smith accusò un terribile mal di testa. Padre Barrault, che ebbe la fortuna di ascoltare la voce del poeta mentre modulava (cantava?) la lettura più esatta, non capì neanche un verso”.
Il primo gennaio 1889, dopo cinque anni passati a Dublino, poco prima di morire di febbre tifoide, Hopkins stila un bilancio della sua esistenza. “Mi vergogno del poco che ho fatto, del tempo perso, benché la grande impotenza e debolezza mi impediscano quasi tutto”. Nondimeno, Beppe Fenoglio, che nei primi anni Cinquanta aveva tradotto alcune sue poesie, coglierà la sua qualità essenziale. Poetare era per Hopkins “una maniera, la maniera di pregare, il suo unico possibile mezzo d’espressione nel suo dialogo con Dio”.
Radianza, biancore, e quella “verticalità atroce” di cui parla Manganelli in appendice al volume: il poetare di Hopkins ricorda forse il titolo di una sua composizione, “Bellezza screziata”, tradotta nel 1951 proprio da Fenoglio. Contiene un elogio sfrenato del diverso, di “Tutte le cose contrarie, originali, frali, strane; / quel ch’è instabile, lentigginoso (chi sa come?)”. Anche queste nascono dalla volontà del Creatore.