letteratura
La scrittura di Mary Renault e la capacità di rievocare lo sguardo greco
Impeto e limite, pianto e sorriso. Il ritorno dell'autrice che ha raccontato Alessandro Magno e il mondo antico come nessun altro
Faville luminose piovono verso l’alto, come una cascata al contrario, nella notte. Tra le urla dei monaci e i nitriti dei cavalli, la biblioteca di una grande abbazia gotica prende fuoco. “D’un tratto alcune finestre si spezzarono come premute da una forza interna, le scintille uscirono all’aperto punteggiando di luci vaganti il buio della notte. Il vento, da forte era divenuto più leggero, e fu sventura, perché forte avrebbe forse spento le scintille, leggero le trasportava eccitandole, e con loro faceva volteggiare nell’aria brandelli di pergamena, resi esili da una interna face”.
È il grande divorante rogo finale del Nome della rosa di Umberto Eco. Spesso è il futuro a contenere il passato, sicuramente in letteratura, e anche in questo caso la prima vampata di quelle fiamme medievali sarebbe sbocciata molto lontano, nel tempo e nello spazio. “Quando accendevamo dei falò sul prato, in campagna, mia moglie mi accusava di non saper guardare le scintille che si levavano tra gli alberi e aliavano lungo i fili della luce. Quando poi ha letto il capitolo sull’incendio ha detto: ‘Ma allora le scintille le guardavi!’. Ho risposto: ‘No, ma sapevo come le avrebbe viste un monaco medievale’”.
È un celebre consiglio di Flannery O’Connor che compito primario di ogni scrittore stia nell’individuare la propria regione. Questa può risultare vicina come la campagna dell’infanzia o remota come la Terra di Mezzo, ma è sempre vero che in un grande artista opera una sorta di vista “doppia”, come l’avrebbe chiamata Leopardi. Quello che è sotto gli occhi di tutti, egli lo lega e sovrappone a qualcos’altro. E molti, dopo aver letto le sue pagine, non potranno più fare altrimenti, fosse pure per un balenio che guizza alla coda dell’occhio. Così, una donna del ’900 ha guardato il Mediterraneo e l’ha visto improvvisamente avvampare di un fulgore freddo e limpido, come lo avrebbe rimirato un ragazzino all’alba, più di duemila anni fa.
“Qualcosa cambiò nel cielo. Mi voltai e vidi l’alba dietro l’Imetto. Le luci si spensero una dopo l’altra e apparvero le navi, posate sull’acqua come uccelli grigi. Quando dalla punta della lancia di Atena balenò una scintilla di fuoco, compresi che avrei dovuto sbrigarmi per non arrivare in ritardo a scuola. I colori delle statue e dei fregi si andavano accentuando, e il marmo acquisiva calore. Era come se l’ordine fosse stato evocato dal caos e dalla notte. Sentii il cuore elevarsi dentro di me. Pensai di pregare prima di andarmene, ma non sapevo a quale altare, perché gli dèi erano onnipresenti e sembravano ripetermi la stessa parola, come se non fossero dodici, bensì uno solo”. Quando C. S. Lewis rispondeva a qualche studente che voleva approfondire il mondo greco antico, consigliava di leggere Mary Renault.
Sul finire della vita egli avrebbe a sua volta realizzato uno dei più splendidi e convincenti tributi all’universo ellenico nel personaggio dello schiavo-filosofo Volpe di A viso scoperto, una figura che per accenni e ondate strappa al lettore che abbia amato quel mondo sui banchi di scuola il sussurro “Ma certo, loro erano esattamente così”, quindi lo scrittore e docente di Oxford ne sapeva qualcosa, eccome.
Mary Renault stessa aveva studiato negli anni 30-40 nel gran tempio accademico inglese, persino con il gran sodale di Lewis stesso, J. R. R. Tolkien, per poi lavorare come infermiera e trasferirsi infine con la sua compagna e amore di tutta la vita in Sudafrica, dove sarebbe morta nell’83.
Alle spalle aveva già alcuni romanzi di ambientazione contemporanea, e fu proprio l’ultimo e più significativo di quel ciclo, L’auriga, storia di un soldato omosessuale durante la Seconda guerra mondiale che già dal titolo si richiamava esplicitamente al Platone del Fedro, a costituire un punto di svolta, proteso spiritualmente verso un altro luogo, e un altro tempo. Da quel momento Renault non si sarebbe più limitata a richiamarsi ai greci dell’età di Pericle o Pisistrato. Avrebbe raccontato gli stessi Alcibiade, Senofonte, persino il Teseo del mito, e le sue narrazioni – quasi sempre in prima persona – avrebbero a loro volta ispirato il Patrick O’Brian di Master and Commander, la Marion Zimmer Bradley de Le nebbie di Avalon e La torcia, il Gore Vidal di Giuliano e Creazione, tutta l’opera di Daniel Mendelsohn, che ancora liceale già scriveva a quella remota e venerata signora a Città del Capo, riversando nelle lettere tutto il tumulto goffo e tronfio della sua vita interiore di adolescente.
Ci sono figure che si sono caricate di una misteriosa riserva di senso, tanto che ci pare di conoscerle sebbene non le abbiamo mai incontrate. Ci siamo richiamati ad esse per così tanti secoli, in così tante forme, che una loro traduzione artistica sbagliata ci fa stranamente sbottare “No, questo lui non l’avrebbe mai fatto”. Ciò è tanto vero di certi personaggi letterari, ormai “veri” come i mortali in carne e ossa, come di certi protagonisti della storia collettiva del mondo. È il caso di Cesare, e ancor più di Cristo, e Socrate. Sono conficcati come pioli nel nostro sistema emotivo, immaginativo, per questo è così facile richiamarsi ad essi e altrettanto facile banalizzarli, annacquarli.
Renault invece sapeva come rievocare quelle voci, quei gesti da cui si irradia una presenza che in qualche modo abbiamo già dentro di noi, facendola spiccare con forza rinnovata, con profondità tridimensionale eppure, al tempo stesso, con uno strano senso di riconoscimento, come incontrando un vecchio amico o cogliendo nella folla l’intercalare irripetibile di un affetto: “Socrate discuteva a gran voce con un uomo imponente che stava tentando di zittirlo. Quando mi avvicinai, lo sentii dire: ‘Sta bene: tu rispetti gli dèi della Città. E anche le sue leggi?’. ‘E come no?’, urlò l’uomo. ‘Chiedilo al tuo amico Alcibiade, non a me’. ‘La legge dell’evidenza, per esempio?’. L’uomo gridò: ‘Non cercare di confondermi le idee’. Insultò Socrate, disse che era un serpente subdolo, che era capace di sostenere che il nero era bianco e insinuò che era al soldo dei Corinzi. Non riuscii a sentire la risposta di Socrate. All’improvviso l’uomo gli sferrò un colpo alla testa e lo fece barcollare addosso a Critone che gli stava accanto. Tutti gridarono. Infuriato, Critone disse: ‘Te ne pentirai! Hai percosso un libero cittadino: dovrai pagargli i danni’. Socrate, nel frattempo, aveva recuperato l’equilibrio. Rivolse un cenno all’uomo e disse: ‘Ti ringrazio. Ora è chiara a tutti la forza della tua argomentazione’”. C’è tutto, qui. L’irresistibile bonarietà del vecchio filosofo, la sua incrollabile fermezza nel perseguire un modo altro di rapportarsi col mondo e gli uomini, e le reazioni di attrattiva stupefatta o violenta opposizione che ciò immancabilmente suscita nell’ottusità del popolo comune come dei potenti. “Odiare l’eccellenza significa odiare gli dèi… Senza il riso, quale uomo di buon senso potrebbe sopportare la politica e la guerra?”.
Del mondo greco Renault sapeva ricreare la nobiltà di sentire, la tensione epica, la ricchezza della passione sensoriale unita a una limpida austerità morale, un sentenziare dove si fondono lo sprone all’eccellenza e la consapevolezza perenne dei limiti che circoscrivono ogni azione e anelito umano. Lei sapeva bene che da quella fucina di concetti e scoperte si sarebbe evoluta la democrazia occidentale, ma anche che alcune delle voci più geniali di quel miracoloso coacervo avrebbero per prime messo in guardia dai pericoli della retorica demagogica, dalla manipolazione delle masse.
Del resto, Socrate stesso sarebbe stato messo a morte non dai Trenta tiranni, ma dal rinato governo democratico, ed è per bocca di un giovane Platone – il quale ancora sfoggia gli orecchini delle antiche casate regali – che Renault ne Le ultime gocce di vino rovescia una cascata di fulmini sprezzanti contro il populismo egalitario, profetizzando, nell’ombra del processo a Socrate, quanto poi si verificherà su scala universale nell’uccisione di Cristo: “Gli uomini venerano queste parole; e poi, sentendosi parte di qualcosa che non può sbagliare, si gonfiano d’arroganza e pensano soltanto di essere superiori a tutti gli altri, e di poco inferiori agli dèi. Che cos’è il demo se non un’onda del mare che cambia mille volte sostanza fra una riva e l’altra? Persino se Zeus l’Onnisciente mandasse sulla Terra quest’uomo perfetto che abbiamo postulato, quest’uomo amerebbe il demo? Io credo di no.
Egli amerebbe il cavaliere e il plebeo, lo schiavo e il libero cittadino, l’elleno e il barbaro, forse anche i malvagi, poiché anch’essi sono le prigioni delle anime nate da Dio. E allora il demo si assocerebbe ai tiranni per chiedere che quell'uomo venisse crocifisso”. Chi ha letto La repubblica sa bene da dove provenga una simile prefigurazione. Il Platone ormai vecchio della tragica esperienza siciliana col tiranno Dioniso verrà poi incontrato da un grande attore tragico ne La Maschera di Apollo, e questi, incrociando anni dopo il giovane Alessandro il Macedone, rifletterà con struggimento che “tutte le tragedie si occupano di incontri voluti dal destino, altrimenti come potrebbe esserci intreccio? Il fato colpisce, il dolore si purifica, o si trasforma in gioia, c’è la morte o il trionfo, c’è stato un incontro e un cambiamento. Nessuno scriverà mai una tragedia – e ciò è bene, perché nessuno lo sopporterebbe – in cui lo strazio consista nel fatto che i due protagonisti non si sono mai incontrati”.
Il maestro e il discepolo ideali si sono mancati per un soffio. Ed ecco la grande regione immaginativa di Mary Renault concentrarsi in un singolo uomo, la cui figura la ossessionò per tutta la vita. Alessandro Magno incarnava tutto ciò che lei amava del mondo antico, bellezza, ardimento, il desiderio di conformarsi a un ideale eroico, la capacità di mediare e fondere universi diversi come le spigolose, fiere città greche e le immense messianiche estensioni dei deserti persiani.
C’è molto di autobiografico nella sua notazione per cui Alessandro “poteva trasmettere l’immaginazione come altri potevano trasmettere la lussuria”. L’incontro con questo sogno fatto condottiero verrà raccontato da una prospettiva suggestivamente ribaltata ne Il ragazzo persiano (appena ripubblicato da Mondadori), attraverso l’animo e le parole di Bagoa, eunuco presso la corte di Dario che diventa poi servitore innamorato del giovane conquistatore. E’ l’Oriente stesso, la sua infinita ricchezza, la sua raffinatezza spesso crudele, il suo misticismo, il suo senso di devozione assoluta, che si esprime per bocca dello splendido danzatore e cortigiano. Ed è attraverso i suoi occhi che per la prima volta intercettiamo quelli di Alessandro.
“Poi volse lo sguardo verso di me. Ero troppo lontano per udire le sue parole, ma Alessandro guardò dalla mia parte e, per la prima volta, vidi i suoi occhi. Li ricordo come fosse ieri, ma rammento con minor chiarezza quello che provai: una sorta di choc, la sensazione che avrei dovuto esservi più preparato.” È una magnifica resa indiretta, fondata unicamente sull’effetto che una personalità suscita attorno a sé, una lezione di stile che risale a molto tempo addietro, quando Omero raccontava Elena alle Porte Scee limitandosi a descrivere i vecchi troiani che ammutoliscono e dopo dieci anni di assedio dichiarano ancora che è giusto morire per una così bella. Nei confronti di quel ragazzo elettrico, che subisce con fastidio persino la pressione del sonno e dell’amore come tributi alla comune mortalità, Bagoa sviluppa una dedizione senza confini, che finalmente ha trovato il suo scopo, il suo dio. “Fu lui a esortarmi: ‘Su, di’’. Risposi: ‘Ti amo troppo, ecco tutto’. Mi trasse a sé e fece scorrere i miei capelli, con dolcezza, tra le dita. ‘Non sarà mai troppo’ disse. ‘Troppo non è abbastanza’”.
In una scena che pare ricalcare Amore e Psiche di Apuleio e Canova, Bagoa osserva il re addormentato, e ne legge il corpo come fosse una mappa, dove la luce purissima che si irradia dal giovane prodigioso è stata taccata, macchiata dai segni del tempo, dal suo aver trascinato gli altri e sé stesso in una grande impresa universale. Ancora una volta, i rimandi al Cristo deposto dalla croce non sono forse casuali. “Alzai la lampada e lo contemplai. Giaceva sul fianco. Aveva la schiena liscia come quella di un fanciullo, le ferite erano tutte davanti. Non esisteva arma inventata per tagliare o penetrare, o per essere scagliata, che non avesse lasciato il proprio segno su di lui. Il suo corpo era bianco, in contrasto con le membra abbronzate dal sole; molto tempo era passato da quando correva nudo nel cortile della palla, insieme ai suoi amici, il divertimento che mi aveva tanto scandalizzato. Sul fianco, la cicatrice a nodi continuava a esercitare una trazione sulle costole; anche in quel momento, nel primo sonno, la fronte di lui non era completamente liscia. Le palpebre erano corrugate, palpebre da vecchio sul viso di un ragazzo addormentato”.
Quel sogno di gloria immortale si sporca nella sabbia e nel sudore della storia, nei suoi intoppi, nelle sue meschinità, e il grande ministro del destino e del limite, il tempo, si prende progressivamente la sua rivincita su chi sembrava in grado di sconfiggerlo. È un altro passaggio discreto e profondo, in cui Alessandro, per palesare qualcosa di sé, parla di altri. “‘Sai’, disse, ‘Bucefalo si sta avvicinando ai trent’anni’. Mi chinai, mentre lo lavavo, e lo baciai sul capo. Avevo veduto, ove la luce della lampada rifulgeva sull’oro, due capelli grigi”. È il gesto di amore supremo, la commozione per la verità segreta dell’altro che non è contradetta neppure dal suo avvizzire, ma anzi proprio nel limite, brilla stranamente bella. La morte intima a tutti la resa, e lo farà bruscamente, ferocemente anche con Alessandro, strappandogli prima con Efestione – com’era stato per il suo modello Achille – ciò che faceva battere il suo cuore, e poi tutto il resto e infine sé stesso.
Eppure, è strano che proprio i greci, così ossessionati dalla bellezza, dalla giovinezza, dal breve istante glorioso in cui la vita umana, nella vittoria sportiva, militare, nella festa nuziale, si sovrappone a quella divina, così consapevoli delle tenebre che insidiano e infine inghiottono le nostre tenui isole di luce, ci abbiano consegnato così tante immagini di vecchi magnifici nella loro calma pensosa, così tanti sconfitti – come Edipo, Antigone, Filottete – da cui si irradia una strana serenità, pur nell’agonia. Anche Odisseo e Penelope, dopo vent’anni di separazione, si accarezzano le rughe, le zampe di gallina, i capelli bianchi sulle tempie. Come riconobbe Camus, “se le mie conoscenze non mi ingannano, nella civiltà ellenica la misura è sempre stata la presa d’atto della contraddizione e la decisione di restarvi, nella contraddizione, qualunque cosa accada. Un approccio di questo genere non è solo un ammirevole approccio razionale e umanista. Presuppone in realtà un atto di eroismo”.
Tutto lo sguardo ellenico, ciò che essi hanno guardato e anche come essi stessi continuano a guardarci dai loro fregi, vasi, versi, busti, è una strana commistione di slancio impetuoso e scienza del limite, di pianto per la fugace bellezza dei giovani coristi, per la perfetta armonia tra linea e curva dei loro bracci tesi, e il sorriso tenue che fa accettare che tutto deve passare, e lo conserva in canto e memoria. Come Renault fece dire i suoi protagonisti, “l’immortalità dell’uomo non è vivere per sempre, giacché quel desiderio è originato dalla paura. Ogni momento libero dalla paura rende l’uomo immortale”.
Non è una consolazione da poco quella che spira da queste parole. Si può permettere al tempo di colpirci e accartocciarci, si può persino invecchiare bene – per quanto sia effettivamente possibile – così.
Universalismo individualistico