"La Rabbia"
Un'Italia bifronte. La sfida tra Pasolini e Guareschi
“La dolce vita”, “Il sorpasso” e poi un film impossibile, diretto dai due intellettuali, che indaga mutazione antropologica degli italiani: com’era e come sognava di essere il paese del boom
In visita a Napoli nel 1776, il marchese De Sade partecipa alle baldorie notturne della nobiltà partenopea e gusta i bei gelati offerti dal Borbone. Finché, una sera, si accorge che le coppe contenenti gli squisiti sorbetti sono legate al tavolo con lunghi spaghi, e chiede a un duca la ragione di una tale novità. “Perché Sua Maestà – gli spiega il duca – si è accorta che ai suoi cortigiani fanno gola più le coppe che i gelati, e pertanto ha preso questa precauzione”. Poi, abbassando la voce, implora: “Non lo dica in Francia, per carità”. Questo aneddoto, raccontato da Luigi Compagnone in un divertente saggio sull’indole festaiola degli italiani (Feste, in L’identità degli italiani, Laterza, 1998), ci parla dell’arguzia di un sovrano (Ferdinando I) e dell’avidità di una aristocrazia parassitaria. Dopo quasi tre secoli, cambia la scena ma gli attori sono gli stessi. Sono appunto gli italiani, che non hanno mai smesso di pensare al loro paese come a un paese un po’ ribaldo e un po’ innocente, in cui il ricorso diffuso a metodi illegali non è mai stato visto come un morbo, una patologia, ma come l’espressione di un congenito spirito d’iniziativa, di creativa vitalità. E’ negli anni Sessanta che questo tratto distintivo del carattere nazionale si manifesta in tutta la sua prorompente esuberanza, raccontato da alcuni grandi registi in film ormai leggendari.
L’espressione “dolce vita” da noi era comparsa già molto prima che Federico Fellini ed Ennio Flaiano la rilanciassero come titolo del loro celebre film (1960). Forse in origine traduceva la nota espressione francese “douceur de vivre” usata da Talleyrand a proposito dell’Antico Regime. La sua enorme fortuna internazionale segue tuttavia la diffusione della pellicola, ed è legata all’immagine che l’Italia di allora, apparentemente ricca e godereccia, dava di sé nell’euforico inizio del miracolo economico; immagine peraltro largamente artefatta. La Roma, più che descritta, vagheggiata da Fellini non era infatti mai esistita; o perlomeno, i suoi aristocratici non erano mai stati così eleganti, i suoi viziosi non erano mai stati così opulenti, le sue donne non erano mai state così affascinanti.
Il protagonista di un altro film dell’epoca, “Il sorpasso” di Dino Risi (1962), mostra un italiano gaudente e spregiudicato. Ma in modo assai più plausibile che nella pellicola di Fellini, il suo carattere strafottente e ottimista viene continuamente contraddetto da un contesto decisamente modesto, ossia da una nazione popolata da personaggi dagli orizzonti limitati, contadini con le uova, piccoli borghesi, suorine; dei ricchi non viene taciuta la volgarità, e del resto il lusso che ostentano è piuttosto scadente. Vittorio Gassman, che viaggia su una vecchia Aurelia sport al cui parabrezza – per evitare contravvenzioni – ha attaccato un contrassegno della Camera dei deputati, non ha denaro in tasca e adocchia la giovane cameriera del ristorante. Insomma, “Il sorpasso” descrive l’Italia del boom come era, e “La dolce vita” l’Italia come sognava di essere.
Della mutazione antropologica degli italiani negli anni del boom si occupa un terzo film, “La rabbia” (1963), forse meno noto (fu un fiasco al botteghino) ma non meno significativo. Il suo produttore, Gastone Ferranti, per realizzarlo aveva messo a disposizione di Pier Paolo Pasolini l’immenso archivio del cinegiornale “Mondo libero” di cui era proprietario. Più tardi, temendo di incontrare le forbici della censura perché troppo sbilanciato a sinistra, decise di affidare una seconda parte del lungometraggio a uno scrittore culturalmente agli antipodi del regista di “Accattone” (1961). Dopo aver scartato diversi nomi, tra cui quelli di Indro Montanelli e Luigi Barzini, la scelta cadde su Giovanni Guareschi.
Nel 1954 il direttore del settimanale umoristico Candido era venuto in possesso di due lettere dal contenuto scottante. Nella prima, datata 19 gennaio 1944, Alcide De Gasperi, su carta intestata del Vaticano, chiedeva agli Alleati di bombardare Roma per scuotere la sua indolente popolazione, e indurla così a sollevarsi contro i nazifascisti. Nell’altra, del 26 gennaio 1944, il leader democristiano comunicava a un capo della Resistenza che i bombardamenti erano imminenti. L’inventore della saga di “Peppone e Don Camillo” aveva pubblicato entrambe le lettere sul suo giornale. La querela fu immediata, e il tribunale lo condannò a un anno di reclusione, a cui si sommarono gli otto mesi con la condizionale che gli erano stati inflitti nel 1951 per una vignetta ritenuta offensiva dell’onore del presidente della Repubblica Luigi Einaudi.
Guareschi, dunque, nel 1962 era un uomo profondamente provato da quella vicenda, di salute instabile, ormai completamente fuori dai circuiti mediatici. Nonostante ciò, accettò l’offerta di Ferranti. Perché il confronto con Pasolini lo stuzzicava, anzi risvegliava appieno la sua natura polemica, e poi era stufo del lungo isolamento a Roncole Verdi, nella sua Bassa. E difatti “La rabbia” sarà un’opera fortemente provocatoria, che rispecchiava due letture opposte di un quindicennio di grandi trasformazioni dei costumi nazionali e degli equilibri politici mondiali. Due letture opposte e tuttavia accomunate dalla critica al dilagante consumismo e dall’attaccamento al passato, alla cultura contadina segnata dai valori del sacrificio, del dovere, della probità.
Deciso a superare gli schemi classici del documentario, Pasolini affianca alla voce fuori campo dei cinegiornali un testo, recitato in versi da Giorgio Bassani e in prosa da Renato Guttuso, al quale affida il compito di esprimere il suo punto di vista sulla rivolta di Budapest, la crisi di Suez, la guerra di Corea, la rivoluzione cubana. Improvvisamente entrano in scena un gruppo di giovani che ballano a ritmo di jazz e due icone del divismo, Ava Gardner e Sofia Loren. E’ il promo di un saggio dolente sull’ascesa della civiltà industriale e la fine del mondo contadino, a cui viene contrapposto lo spirito religioso di Papa Giovanni XXIII e il riscatto della tradizione, che può essere assicurato soltanto da una rottura rivoluzionaria, “perché solo la rivoluzione salva il passato”. L’accostamento tra Marilyn Monroe, il simbolo più sensuale del sogno americano, e Yuri Gagarin, il simbolo più moderno del mito sovietico, si accompagna alla denuncia delle disuguaglianze incolmabili tra la borghesia milanese della Scala e le famiglie sfrattate delle periferie romane, tra la classe “padrona delle bellezza e della ricchezza” e la “classe che dà supremo valore alle sue povere mille lire, e su questo fonda una vita, capace di illuminare la fatalità del morire”. Proprio alla morte dell’attrice di Hollywood (1962) è dedicato uno dei capitoli centrali del documentario pasoliniano, forse il più riuscito e meno retorico. Un ritratto pieno di simpatia, che ha il merito di raccontare una delle più formidabili invenzioni dell’industria cinematografica americana, capace di trasformare un’attraente ragazza di Los Angeles nell’emblema dell’eros e, insieme, del candore e della ingenua tenerezza dei sentimenti.
Anche Guareschi inizia con una sequenza di giovani che ballano il rock and roll al raduno del Palaghiaccio di Milano del 1958. E anche lui si scaglia contro i modelli della società di massa: il quiz televisivo “Lascia o raddoppia?” con Mike Bongiorno e Edy Campagnoli, le sfilate di moda con le modelle in biancheria intima, gli elettrodomestici di un grande magazzino, le automobili che invadono le città, la speculazione edilizia che deturpa le coste, gli appuntamenti mondani dei potenti, le cronache rosa di attricette e affaristi. Alternando le immagini di Palmiro Togliatti, Nilde Iotti e Marisa Malagoli a teatro con quelle di Totò, circondato dai fotografi in un seggio elettorale, la voce fuori campo del doppiatore Carlo Romano esclama: “Divertirsi non è più privilegio di pochi. Oggi anche le proletarie possono farsi la pelliccia”. E mentre scorrono sullo schermo le immagini di Anita Ekberg e Brigitte Bardot, piovono gli attacchi agli intellettuali di sinistra e a quel mondo della celluloide che, in base a una falsa idea di libertà, hanno fatto prendere al sesso “il posto del cuore e del cervello”, rivalutato l’omosessualità, trasformato Roma da centro della cristianità in un postribolo.
Guareschi non è meno tenero con il neocapitalismo, che non può garantire “contentezza e pace” a un ordine internazionale fondato sulla vendetta dei vincitori sui vinti del Secondo conflitto mondiale, come dimostrano il processo di Norimberga, Piazzale Loreto, Hiroshima, le fosse di Katyn e l’Europa divisa dal Muro di Berlino. Inoltre, si schiera apertamente dalla parte della Francia nella guerra d’Algeria, insulta il sindaco di Firenze Giorgio La Pira per il gemellaggio con la città marocchina di Fez, esalta le vittime della repressione sovietica della rivolta ungherese del 1956. E alle parole degli astronauti Gagarin e Titov, che nei loro viaggi spaziali non avevano incontrato “né angeli né santi”, contrappone la fede genuina delle “donnette” di Napoli che incitano san Gennaro a compiere il miracolo del sangue che si scioglie nell’ampolla, perché “i beni materiali non bastano all’uomo, che è fatto di materia e di spirito”.
Terminato il montaggio (in due sale diverse), il film fu visionato da ambedue gli autori. Pasolini decise di annullare la sua firma e, dopo solo tre giorni di programmazione, il film venne ritirato dalle sale cinematografiche. L’antagonismo con Guareschi, accusato di essere un razzista e un nazifascista, raggiunse il calor bianco. Dal canto suo, Guareschi gli rispose per le rime, definendolo un borghese conformista incapace di ridere, come tutti gli amici dei regimi comunisti.
Due lettere chiariscono le rispettive posizioni:
“Egregio Guareschi, come ogni umorista che si rispetti – e io voglio rispettarla – Lei è un reazionario. Perciò so bene quale sarà la sua rabbia, la sua rabbia reazionaria. Sarà la rabbia di chi vede il mondo cambiare, cioè sfuggirgli, perché i reazionari sono degli ammalati. Degli spiriti senza piedi. So bene chi sarà esaltato e chi sarà umiliato nel suo film. Lei è a destra, difende le istituzioni perché ha paura della storia. I monumenti non sono pericolosi. Tutt’al più sono brutti. E lei è insensibile alla bruttezza. Lei è insensibile alla bruttezza perciò ha scelto la mediocrità. E’ questa la ragione per cui se la rispetto come umorista, la rispetto meno come scrittore. E appunto perché lei userà le armi della mediocrità, del qualunquismo, della demagogia e del buon senso, lei uscirà vincitore in questa polemica, lo so bene. Ma qual è la vera vittoria, quella che fa batter le mani o quella che fa battere i cuori? Stia bene. Pier Paolo Pasolini”.
“Egregio Pasolini, io, borghese di destra, vedendo un negro scannare un bianco, dico Povero bianco. Lei dice invece Povero negro. E, per questa mia solidarietà di bianco alla razza bianca, Lei mi accusa di razzismo. Questo perché Lei è un borghese di sinistra e, come tale, conformista. Le dittature non tollerano l’umorismo di cui hanno paura e, sulla soglia del tetro e sconfinato Impero comunista, la storia ha scritto col sangue dei milioni di assassinati: ‘Qui è proibito ridere’. E’ logico perciò che l’umorista Guareschi venga giudicato dal marxista Pasolini come fu giudicato da altri conformisti nel 1943: un sovversivo da isolare. Siamo su opposte rive, mentre la sua rabbia risulterà in regola con il conformismo e con tutti gli ismi di moda, la mia sarà quella di chi è rimasto ciò che era trent’anni fa: un uomo qualunque pronto a battersi sempre contro il conformismo anche a costo di rompersi la testa, un uomo che difende il mondo dello spirito insidiato dal mondo ateo del materialismo e perciò non dimentica la Logica, la Storia, il Buon Senso ed è nemico di coloro che vorrebbero arare la terra dove giacciono le ossa dei nostri Morti. Non potendoLe dire ‘arrivederci’ perché le nostre strade vanno in direzione opposta, la prego di gradire i distinti saluti di Giovannino Guareschi”.
Uno scontro che il produttore Ferranti auspicava, ma che non incontrò il favore del pubblico. Nella sua recensione, perfino Alberto Moravia non fu tenero con il suo pupillo: “Pasolini ha voluto dare un’interpretazione il più possibile originale e personale degli avvenimenti […]. L’avremmo preferito più semplice, più diretto, più razionale, meno letterario. Pasolini piacerà senza dubbio ai suoi lettori, che sono certo assai numerosi; ma riuscirà forse un po’ difficile e oscuro all’ancor più numerosa massa degli spettatori meno avvertiti” (L’Espresso, 21 aprile 1963). Risultato: il film apparve per qualche giorno in poche sale, poi scomparve dalla circolazione. Nel 2007 la pellicola originale fu restaurata a cura della Cineteca di Bologna. Nello stesso anno venne presentata alla Festa del cinema di Roma. Dopo la proiezione, si svolse un dibattito tra Massimo D’Alema, Lamberto Dini e Tatti Sanguineti, che ne aveva curato l’edizione in dvd.
A un certo punto, dopo che la strigliata alla società dei consumi aveva finalmente messo tutti d’accordo, irrompe la provocazione del coordinatore della tavola rotonda, Giuliano Ferrara: Pasolini figlio e Guareschi figliastro del Concilio Vaticano II, senza il quale il primo non sarebbe potuto esistere e il secondo avrebbe senz’altro avuto maggiore considerazione nella cultura italiana. E, prima di chiudere il dibattito, chiede alla platea un voto sulla sua idea: qualche sì, molti no. “Vabbè – conclude – non siamo mica un Soviet. Ci sono state le primarie. E domani nasce il Partito democratico”.