POLEMICHE ALLA FINE DEL NOVECENTO IDEOLOGICO
“I grandi scrittori? Tutti di destra”. Quando Raboni turbò i buoni salotti
Una plaquette dell’editore De Piante ripropone alcuni articoli dell'autore, riunendoli sotto un titolo provocatorio. Tutti in Italia ritengono la cultura affare della sola sinistra e si sono abituati a estendere il luogo comune a tutti i tempi e le latitudini
La mania di apporre l’etichetta di destra o di sinistra su qualunque oggetto o costume percorre tutta la storia del marxismo; e al suo tramonto, Giorgio Gaber ne ha offerto un compendio in un’ironica canzone. Vittime illustri sono stati i libri. A sinistra il mito della Cultura non concedeva rapidi falò, ma esigeva grotteschi processi agli scrittori.
Come un reperto di quel mondo, da rimeditare in tempi di nuovi fondamentalismi, ci arriva oggi una raffinata plaquette dell’editore De Piante, che ripropone alcuni articoli di Giovanni Raboni riunendoli sotto il titolo del più rilevante: I grandi scrittori? Tutti di destra. Data degli articoli: 2002. Il Novecento ideologico era ormai morto, e neanche Gaber stava tanto bene. Ma ad alimentare un residuo di dibattito rimanevano i superstiti del secolo breve e l’aggressività dei giornalisti. I pezzi raboniani nascono da un incidente comico, descritto da Luca Daino nell’introduzione: a inizio marzo, sull’Unità, Angelo Guglielmi invita Umberto Eco a disertare ogni tanto la sua immensa dottrina per aprirsi “a qualche occasione di ignoranza”.
Subito Francesco Merlo, sul Corriere, denuncia quell’invito come un attacco della sinistra al suo maggiore intellettuale (e il fatto che lo ritenga pacificamente tale è la conferma della fine di un’epoca). Guglielmi replica assicurando che la propria ammirazione per Eco è così grande da farlo soffrire per la sua teologica inesprimibilità. A questo punto, tra le voci da commedia all’italiana, prova a emergere quella sobria di Raboni, che invia al Corriere una paginetta censurata forse per diplomazia. Vi rivendica il diritto di qualsiasi critico di sinistra di parlare male di qualsiasi artista o intellettuale di sinistra (come a lui è capitato, “vedi caso”, proprio con Eco e Guglielmi), senza per questo sentirsi affetto “dalla sindrome del nonsense o da quella di Salieri”. “Siamo già messi così male” aggiunge con sarcasmo sublime “che non mi sembra il caso di costringerci, come sovrappiù, ad ammirarci l’un l’altro”. A fine marzo, poi, il pezzo eponimo trova spazio sulle pagine del quotidiano milanese.
Tutti in Italia sembrano così d’accordo nel ritenere la cultura affare della sola sinistra, scrive stavolta il poeta-critico, che si abituano presto a estendere il luogo comune a tutti i tempi e le latitudini. Per contestare questa convinzione, davvero curiosa in un paese dove tanta retorica rivoluzionaria ha avuto come modelli Croce e D’Annunzio, Raboni allarga allora lo sguardo al Novecento letterario mondiale, i cui protagonisti sono stati spesso legati “a una delle diverse culture di destra – dalla più illuminata alla più retriva, dalla più conservatrice alla più canagliesca”, e mette insieme un provvisorio elenco: si va da Benn a Forster, da Céline a Hamsun, da Montale a Gadda, da Drieu a Nabokov… In generale, avverte, una persona di sinistra o di destra che scrive non è ipso facto uno scrittore di sinistra o di destra, perché “il senso di un’opera letteraria” si decide “su un piano totalmente diverso da quello delle scelte di carattere ideologico e dei comportamenti di carattere politico”.
Forse, anzi, esiste al contrario un legame tra “passione sperimentale” e sfiducia nel progresso (Céline, Pound), come tra “progressismo politico e conservatorismo stilistico”. E qui Raboni avrebbe potuto citare l’esaltazione engelsiano-lukacsiana di Balzac come reazionario nei cui libri trionfa però un realismo “rivoluzionario”, o l’idea del giovane Asor Rosa secondo cui il populismo compromissorio degli scrittori progressisti li rende meno veritieri dei loro colleghi aristocratici e senza illusioni. Ma in un articolo di giornale non si può dire tutto; e poi, quando sfiora la politica, la prosa elegantemente lineare di Raboni semplifica sempre troppo. Non aiuta però a correggerla la postfazione di Franco Cardini, che mescola confusamente Plebe e Veneziani, i tolkieniani e il Pavese da brivido dei taccuini.
Tuttavia, nel caos due osservazioni si salvano: Cardini ricorda che già nell’ultimo tratto di Novecento certi intellettuali di sinistra come Cacciari si aggrappavano al pensiero reazionario (Schmitt, Heidegger); e conclude dicendo che la sinistra, più che nella cultura, primeggia nelle “politiche culturali”. Ovvero nell’organizzare anche culturalmente quella società moderna che tanti scrittori, per natura individualisti, hanno giudicato un Moloch. E in effetti molti di loro, più che di destra, sono antimoderni. Ultima nota. Poche e discutibili tracce lasciano in questo libretto le “terze forze”. Che ci sia un rapporto tra la loro irrilevanza, nella nostra politica erotizzata dai sogni di potenza, e il fatto che i due capolavori dei nostri maggiori romanzieri liberali (“Il bell’Antonio”, “Ferito a morte”) ruotano intorno a un caso d’impotenza sessuale?