Il Foglio del weekend
Fumetti infiniti. Cento anni di Charles M. Schulz
Con Snoopy e Charlie Brown ha rivoluzionato le strisce quotidiane, un successo che non ha confini
Dopo dieci anni di incredibile successo, con le sue strisce che apparivano ogni giorno su circa 2.500 quotidiani, nel 1995 Bill Watterson diede la notizia che Calvin & Hobbes sarebbe giunto al termine. “Questa non è stata una decisione né recente né semplice, e me ne vado con un po’ di tristezza. Però i miei interessi sono cambiati e penso di aver fatto quello che potevo con le limitazioni delle consegne quotidiane e dei pannelli di piccole dimensioni. Non vedo l’ora di lavorare a un ritmo più ragionato e con meno compromessi artistici”, scrisse ai lettori qualche mese prima che uscisse l’ultima vignetta, il 31 dicembre del 1995.
“E’ un mondo magico, Hobbes, vecchio mio… andiamo a esplorarlo”, dice Calvin, il ragazzino biondo, alla sua tigre di pezza nell’ultimo pannello, e si lanciano entusiasti nella neve con lo slittino. Da allora Watterson, che aveva 37 anni, è sparito, come un J. D. Salinger del fumetto, tra i sobborghi e boschi dell’Ohio. Non ha prodotto praticamente più niente, almeno per il pubblico, se non un paio di poster (per il festival di Angoulême e per il documentario Stripped) e ha concesso solamente due interviste negli ultimi decenni dove ha sempre confermato di non aver mai rimpianto la sua scelta.
Inoltre, Watterson ha deciso di non utilizzare mai i suoi fortunatissimi personaggi per vendere merchandising. Esiste solamente una t-shirt autorizzata, per il Moma, e due calendari. Tra le poche cose firmate da Watterson negli ultimi tempi ci sono due articoli su Charles M. Schulz, il creatore dei Peanuts. In uno di questi, sul LA Times riconosce che Schulz gioca in un campionato a sé, come bravura e come influenza su altri fumettisti: “I Peanuts ormai sono così inseriti nella cultura pop che si trascura quanto la striscia fosse diversa quaranta o cinquant’anni fa. Possiamo quantificarne il successo in tutti i vari settori commerciali, ma il vero traguardo della striscia sta dentro le scatolette piene di immagini divertenti che Schulz disegnava ogni giorno”.
I disegni di Schulz, a differenza di quelli di Watterson, si possono infatti trovare su qualsiasi superficie, sono usciti dalla carta e hanno iniziato a ricoprire stoffe, tele, plastiche e metalli. E’ impossibile andare in giro in una qualsiasi città e non incappare in una giornata nell’effige di uno dei personaggi, che sia Snoopy o Lucy, Charlie Brown o Woodstock – su una maglietta, uno zainetto, un portachiavi, un cappellino, una lunch box, una pubblicità di MetLife. Esistono Swatch, Vans, lampade Poldina, zaini e marsupi Eastpack, e addirittura Rolex da migliaia di euro. Puma, Benetton, Tezenis, Levi’s, Original Marine, MC2 Saint Barth, H&M, Alcott, Kiabi, Zara, Pull & Bear, Bershka, Stradivarius, Lacoste, Coach, Oysho sono solo alcuni dei marchi che hanno linee o capsule collection dedicate ai Peanuts.
Tappeti, tovaglie, tovagliette, posate, piatti, pantofole, tazze, calzini, timer, specchi, taglieri, Pez dispenser, menorah, scacchiere, cuscini, coperte, copridivani, lenzuola, grembiuli, salvadanai, asciugamani, accappatoi, tende da doccia, borracce, tostapane, macchine per hot-dog, frigoriferi Smeg… per non parlare poi del reparto cartoleria o della serie infinita di peluche, action figure, pupazzi, bobble-head, Funko Pop – insomma, un po’ come la “regola 34” di internet (se qualcosa esiste, c’è anche la sua versione porno) esiste una regola Schulz: se qualche oggetto esiste, probabilmente ne esiste la versione con Snoopy. Ma, come ricorda Watterson, “l’impero del merchandising creato dai Peanuts non avrebbe mai funzionato se la striscia non fosse stata sempre di qualità. Non ho idea di come faccia un fumettista a mantenere questo livello decennio dopo decennio”. A Tokyo esiste uno Snoopy Museum, satellite di quello di Santa Rosa, in California, dedicato a Schulz. Nel 2015 è uscito il film The Peanuts Movie che ha attivato una sua linea di giochi e oggetti promozionali.
Il merchandising diventa per i Peanuts, oltre che un’industria multimilionaria, una celebrazione della semplicità della ligne claire schulziana, una condivisione dell’immaginario che si fa simbolo e che ha un caso eccellente e istituzionalizzante: la Nasa. Nel maggio del 1969 per l’ultima missione americana prima dello sbarco sulla luna gli astronauti dell’Apollo 10 scelsero come nomi per la capsula e per il modulo lunare quelli di Charlie Brown e Snoopy. Il figlio del fumettista, Craig, ha detto più volte che questo fu il momento di maggior orgoglio per il padre. Il New York Times nella primavera del ’69 scrisse un articolo intitolato Lenin vs Snoopy dove sottolineava le differenze di spirito tra America e Unione sovietica in base alle scelte dei nomi dei rispettivi razzi lanciati in quel periodo – se Mosca ha deciso di usare il lancio dei Venera per aumentare il culto di Lenin, dice l’articolo, gli astronauti americani hanno scelto i nomi di due personaggi dei fumetti “che non rappresentano alcuna ideologia o partito politico, ma esemplificano la condizione umana in un mondo di frustrazioni”.
Due anni prima c’era stato il disastro dell’Apollo 1, dove erano morti bruciati i tre astronauti e il capo delle relazioni pubbliche della Nasa, Al Chop, aveva contattato Schulz per poter usare Snoopy come mascotte ufficiale della sicurezza spaziale. I dipendenti più attenti dell’agenzia iniziarono a ricevere ogni anno lo Snoopy Silver Award in forma di medaglia d’argento con sopra il bracchetto vestito da cosmonauta. Cinquant’anni dopo la Nasa, finita l’esaltazione novecentesca per i viaggi stellari – ritornata un po’ con Elon Musk – ha fatto un nuovo accordo con la Peanuts Worldwide per promuovere le sue attività e suscitare nei giovani la passione per lo spazio e le materie scientifiche.
Il soft power di Snoopy è indiscusso. E’ sufficiente pensare alla “coperta di Linus” nel linguaggio psicologico. L’influenza dell’opera di Schulz è indubbiamente altissima, e arriva ovunque nel mondo a generazioni lontanissime tra loro, dai sessantenni italiani alle teenager giapponesi. E’ una pervasività combattuta forse solamente dall’universo Disney – anche di Topolino esiste il Rolex – e in parte da quello dei Looney Tunes, della Marvel, dei Pokémon e di Batman. Ma solo dei Peanuts il medium principale rimane la striscia, e solamente i Peanuts sono creati da un autore individuale che non avrà eredi che ne continueranno il lavoro. Esiste un’unicità dell’opera, esiste un unico artista.
In Italia esistono due prodotti che devono il proprio nome alla striscia, una è la lampada Snoopy di Pier Giacomo e Achille Castiglioni disegnata per Flos, che ricorda la forma del cane. L’altro è Linus, la prima rivista italiana dedicata interamente al fumetto, per anni almanacco della sinistra fun (Michele Serra, Stefano Benni…) oggi edita dalla Nave di Teseo (che ha comprato Baldini&Castoldi) e diretta da Igort. Linus, un personaggio secondario – non Charlie Brown, non Snoopy – così riconoscibile da dare il nome a una rivista, come succederà più avanti con Corto Maltese, come in Francia con Spirou. Rivista fondata da Giovanni Gandini nel 1965 Linus viene poi politicizzata da Oreste del Buono negli anni successivi “assecondando l’aria del tempo”, come scrive Alberto Saibene nel libro Milano fine Novecento (Casagrande), dove dedica un capitolo al milieu meneghino che elevò il fumetto a materia intellettuale. Dietro e dentro la rivista ci sono esponenti dell’intellighenzia come Umberto Eco ed Elio Vittorini.
Da un sondaggio tra i lettori viene fuori che Peanuts e B.C. sono i fumetti più amati. Eco è tra i primi pensatori pubblici a cercare un incontro tra cultura alta e bassa before it was cool, e a pubblicare nel 1963 l’articolo Il mondo di Charlie Brown, dove usa gli strumenti universitari socio-psico-semiotici per spiegare i Peanuts. “Questi bambini”, scrive, “sono le mostruose riduzioni infantili di tutte le nevrosi di un moderno cittadino della civiltà industriale”. Oggi le vignette dei Peanuts vengono memizzate dalla generazione del baby boom e condivise su WhatsApp con frasi motivazionali finto-sagaci, con battute e giochi di parole mai scritti da Schulz;
Snoopy alla macchina da scrivere con sopra in un font da WordArt “mi avvalgo della facoltà di visualizzare e non rispondere”, Snoopy e Woodstock che fanno colazione diventano dei “Buongiornissimo caffè”, Snoopy sul parapendio è accompagnato da un “sta arrivando il mio buongiorno per te”. I boomer condividono l’universo Peanuts, per loro un pezzo dell’infanzia, ma lo adattano al proprio linguaggio, alla necessità di comunicare tramite “i messaggini” con card glitterate, ignorando, senza sensi di colpa, l’opera originale e tralasciando l’aura narrativa, giocando tutto sulla riconoscibilità dei personaggi e sulla loro carineria. Snoopy diventa per i boomer un’emoji nostalgica adattabile alla retorica dell’augurio telematico involontariamente cringe.
Ma non è Linus a far conoscere Charlie Brown & Co. agli italiani. La prima volta che Snoopy e amici appaiono è su un giornale del Partito comunista, Paese Sera, una Unità light, che ha una pagina quotidiana dedicata ai fumetti, quasi tutti americani. La striscia si chiama Pierino, il nome che viene dato dai traduttori a Charlie Brown. Ogni tanto, per disattenzione, il personaggio prende il nome di Carletto. L’uscita non segue la cronologia delle tavole americane e capita di trovare strisce slegate da quelle del giorno prima, magari uscite un anno dopo. Alcune cose vengono limate e adattate al pubblico, il compleanno di Beethoven – la festa celebrata da Schroeder – diventa ad esempio San Valentino.
Quando nasce Linus, il quotidiano comunista continua con le proprie traduzioni a pubblicare le strisce, e troviamo così per il pubblico italiano due versioni parallele con nomi diversi per i personaggi (Piperita Patty diventa Mentina Patty), su Paese Sera da Pierino si passa a Charly e poi a Charlie Brown. Quello che per Linus è il “Grande cocomero”, per Paese Sera è la “Grande zucca”.
Il fatto che i Peanuts siano sempre stati pubblicati ed elevati da realtà di sinistra resta un fatto curioso, considerato che Schulz per tutta la vita votò repubblicano, dichiarandosi senza vergogna un grande ammiratore di Ronald Reagan. Quando l’editore Fantagraphic Books ha iniziato a pubblicare le strisce complete in diversi volumi, ha chiesto a Barack Obama di scrivere una delle introduzioni e lui ha accettato. Schulz “ha trattato l’infanzia con tutta la tenera e commovente complessità che si merita. Ha dato voce a tutte le sue gioie e le sue ansie” scrive l’ex presidente.
Il libro di Blake Scott Ball Charlie’s Brown America, che si concentra sulla politica nelle strisce di Schulz, mostra come per tutti gli anni di pubblicazione, dal 1950 al 2000, il fumetto ha sempre evitato di infilarsi dentro temi direttamente politici – “gli hippy, il Vietnam, il Watergate, lo scandalo Iran-Contra, gli scandali della Cia, gli impeachment, le elezioni…” non toccano mai la vita suburbana di Lucy, Linus e Sally. Alla fine della sua carriera in un’intervista Schulz disse: “Faccio ogni sforzo possibile per evitare di offendere chiunque”, una frase che sembra anticipare l’era in cui viviamo oggi, quella del wokismo e della cosiddetta cancel culture, ed è qui che potrebbe risiedere uno dei motivi del successo eterno dei Peanuts. Non ci sono detrattori, non c’è fumettista che non riconosca la comprensibile superiorità di Schulz. Stephan Pastis, autore della fortunata striscia Pearls Before Swine, dice che Schulz è stato per la striscia a fumetti quello che Marlon Brando è stato per il cinema, “rivoluzionario”.
I dolori che vediamo nelle storie, quelle che l’articolo del NYT Lenin vs Snoopy chiama “mondo di frustrazioni”, che Eco chiama “le nevrosi di un moderno cittadino della civiltà industriale” e Obama “ansie”, sono il motore delle dinamiche tra i personaggi, e non ci sono mai decessi, povertà, malattie gravi, guerre (se non quelle a cui gioca Snoopy in una delle sue innumerevoli trasformazioni). In qualche modo i Peanuts vivono in una bolla, in un safe space in cui i dilemmi e i dolori nascono dal perdere una partita di baseball, dal dover andare a scuola, dall’essere rifiutati da una ragazza o dal farsi domande esistenziali guardando la notte stellata, le nuvole, o stando appoggiati coi gomiti sul muretto.
In questo il piano narrativo è molto borghese, la complessità non sta nei meccanismi ma nei quesiti dei personaggi e nelle loro risposte, che spaziano dalla massima naïveté infantile alla consapevolezza epigrammatica di un presocratico. “C’è differenza tra una filosofia e un magnete da frigo”, dice Linus. Quest’anno, il 26 novembre, ricorre il centenario di Charles M. Schulz, che per tutta la vita ha evitato di andare dall’analista per non perdere le sue idee, che ha sempre identificato nella sua sfiga giovanile, nella sua mediocrità adolescenziale, la fonte del successo delle sue storie, che poi sono un’unica grande striscia infinita durata cinquant’anni. Quella che Robert Thompson ha chiamato “la storia più lunga mai raccontata da un singolo artista nella storia dell’umanità”.